Esoterismo

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Storia dell’occultismo – Esoterismo

Sommario “Storia dell’occultismo”: 1 – Pitagora; 2 Gnosticismo;

Altre vite di occultisti nella rubrica “Archivio” (per localizzare tale rubrica vai alla prima facciata della Rivista e guarda in alto)

Sommario “Esoterismo”: 1. L’Evoluzione degli animali; 2 Ars moriendi secondo gli insegnamenti orientali


Pitagora

Pitagora nacque nel 580 a.c. nella casa di un ricco mercante di Samo.

Il tiranno del luogo prese in simpatia il giovane Pitagora e lo inviò al suo amico Amasi, faraone d’Egitto, a che lo facesse “iniziare” nei misteri di Egitto. Ciò che fu fatto. Quando Cambise invase l’Egitto, Pitagora traslocò ( probabilmente su ordine del faraone ) in Babilonia .

I sui biografi dicono che complessivamente Pitagora visse lontano dalla sua città 34 anni. Anni in cui Pitagora vivendo nei due paesi, che erano tra i massimi detentori della sapienza del tempo, potè provvedere al meglio a perfezionare la sua cultura.

Tornato a Samo, non ci stette per molto ( probabilmente perché la sua grande personalità sentiva bisogno di espandersi in un Paese che le desse maggior spazio di quello che le poteva dare una cittadina come Samo). Egli individuò tale luogo in una città della Magna Grecia, Crotone

Qui lascio la parola al racconto che Schurè – il grande poeta seguace dell’antroposofia di Steiner – fa ( nel suo bel libro “I grandi Iniziati ) – dell’evento con cui fu decisa dal senato di Crotone la creazione della Scuola pitagorica

.“Il senato di Crotone , s’impensierì ( del sempre maggiore ascendente che Pitagora acquistava presso la popolazione ) e impose a Pitagora di dar ragione della sua condotta e dei mezzi che adoperava per signoreggiare gli spiriti.

E Pitagora colse quell’occasione per manifestare le sue idee sull’educazione e dimostrare che queste, anziché minacciare la costituzione dorica di Crotone, l’avrebbero meglio rafforzata . Resi così favorevoli al suo disegno i cittadini più ricchi e la maggioranza de senato, Pitagora propose la creazione d’un istituto, che accogliesse lui e i suoi scolari. Questa confraternita d’iniziati laici avrebbe condotto la vita in comune, in un edifizio costruito apposta, ma senza allontanarsi dalla vita civile: quelli poi fra loro, che si fossero meritati già il nome di maestri, avrebbero potuto insegnare le scienze fisiche, psichiche e religiose. Quanto ai giovani, sarebbero stati ammessi alle lezioni dei maestri e ai diversi gradi dell’iniziazione, secondo la loro intelligenza e la loro buona volontà, sotto il controllo del capo dell’ordine. Per cominciare, essi avrebbero dovuto sottoporsi alle regole della vita comune e passare tutto il giorno nell’istituto, sotto la sorveglianza dei maestri. Quelli poi, che volessero entrare formalmente nell’ordine, avrebbero dovuto abbandonae i loro beni a un curatore, con libertà di riprenderli quando loro piacesse. Vi sarebbe stata infine nell’istituto una sezione per le donne, con iniziazione parallela, ma diversa per adattarla ai bisogni del loro sesso. Questo disegno fu approvato con entusiasmo dal Senato di Crotone e dopo alcuni anni, sorse, lungo la cinta della città, un edifizio circondato da vasti portici e da bei giardini, a cui si dette il nome di tempio delle Muse (….).Così nacque l’istituto pitagorico, il quale – continua a dirci Shurè nella sua narrazione – diventò ad un tempo un collegio di educazione, un’accademia scientifica e una cittadina modello sotto la guida d’un grande iniziato”

L’istituto pitagorico diventò presto famoso ed ebbe diverse diramazioni in tutta la Magna Grecia.

Al successo sociale si aggiunse per Pitagora un successo sentimentale e familiare; infatti egli, quando già aveva sessant’anni si sposò con una giovinetta, Teano, e tale matrimonio risultò felicissimo. Da esso nacquero tre figli di cui, uno, Telange, diventerà più tardi maestro di Empedocle.

La vita di Pitagora ( e dei suoi amici e discepoli ) si svolse sempre favorevolmente e felicemente per lunghissimo tempo, circa un quarto di secolo, ma, quando già Pitagora aveva novantanni, scoppiò una reazione al movimento pitagorico (molto probabilmente parte della popolazione sentiva troppo gravose le restrizioni di carattere morale che tale movimento imponeva ) : la casa in cui si trovava Pitagora con una trentina dei dirigenti dello Stato da Lui ispirato, fù bruciata e nell’incendio Pitagora e i suoi discepoli perirono. Questo secondo alcuni, altri danno altre versioni. Certo é che Pitagora fu assassinato, e la maggior parte dei suoi seguaci si disperse nelle varie città della Magna Grecia.

Alcuni cenni sulle idee religiose e filosofiche di Pitagora.

Pitagora, anche se ammetteva l’esistenza degli Dei e li onorava, era un monoteista. Nel senso che riteneva che al di là e al di sopra degli Dei, esistesse un UNO, la cui natura l’uomo col suo cervello modestissimo non può neanche vagamente concepire ( noi, se avremo la possibilità di continuare i nostri discorsi sull’occultismo, vedremo che l’idea dell’inconcepibilità di Dio fu comune a molti Maestri, anche a Maestri accettati dalla Chiesa cattolica come Dionigi l’Areopagita, a cui si deve l’elaborazione cristiana della teologia negativa ) .

Come relazionarci allora con tale Essere inconcepibile ?? Sul punto noi lasciamo la parola ( come riportata da Schurè, nel suo bel libro già citato, p. 307 ) a un discepolo di Pitagora, Filalao:

“ Ma come avvicinarsi a Lui, l’essere ineffabile ? Ha mai visto nessuno il signore del Tempio, l’anima dei soli, la fonte delle intelligenze ? No : é solamente confondendosi con Lui che se ne penetra l’essenza”.

In altre parole, noi riusciamo a comprendere Dio nella misura che diveniamo a Lui simili, così come possiamo sperare di conoscere veramente una persona quando il diapson dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri vibra all’unisono con quello della persona che vogliamo conoscere.

Quindi per i Pitagorici l’anima desiderosa di Dio dove cercare sempre di più di indiarsi, di farsi simile a Dio.

E siccome l’essenza di Dio é espressa dall’essere Egli Uno, quindi nel non albergare in sé dei conflitti, chi vuole fondersi in lui deve cominciare a crearsi un carattere armonioso, senza conflitti devastanti dentro di sé . Dice Filolao: “ La Vostra anima é piena di discordie e di tempeste. Ebbene si tratta di attuarvi l’unità dell’armonia. Allora, allora soltanto Dio scenderà nella V. coscienza, sarete partecipi del suo potere e farete della vostra volontà la pietra del focolare, l’altare di Vesta, il trono di Giove”.

Quindi chi vuole giungere al Sommo Bene deve addossarsi un lavoro di miglioramento e di purificazione della sua personalità. Chiaro che questa opera di purificazione non potrebbe ultimarsi e giungere al suo fine ( di rendere chi la pratica sempre più simile a Dio) , se chi la pratica per realizzarla avesse a disposizione solo una vita. Ma così per i pitagorici con era : essi infatti credevano nella metempsicosi : l’anima é immortale e una volta che il corpo di un uomo muore, Essa emigra e viene ospitata nel corpo di un altro essere dove ha la possibilità di fare nuove esperienze e di migliorarsi.

Credevano i Pitagorici all’inferno, cioé a un luogo di sofferenza eterna a cui i malvagi sarebbero destinati? No, non vi credevano. Però credevano che l’anima tra una vita e l’altra, facesse esperienza di grandi gioie ( il nostro Paradiso) ma anche ( se si fosse comportata male ) di grandi sofferenze ( il nostro Purgatorio ).

Altra domanda : per i pitagorici tutti gli uomini, per usare i loro termini, tutte le Nomadi, si salveranno fondendosi ( sempre di più ) in Dio oppur alcune di esse , come credono i Cristiani, si perderanno per sempre.

La risposta che i Pitagorici davano a tale domanda era ispirata a una concezione ragionevolmente ottimista : ogni Monade, prima poi, giungerà a fondersi con Dio, ma seguendo un più o meno lungo e un più o meno doloroso percorso, a seconda che se si sarà comportata o no secondo la volontà di Dio.

“Le vite ( dell’uomo) – ci dice Schurè a p.335 spiegandoci la filosofia pitagorica – si seguono e non si assomigliano, ma si intrecciano con una logica spietata. Se ciascuna di esse ha la sua propria legge e il suo particolare destino, la loro successione é retta da una legge generale, che si potrebbe dire della ripercussione delle vite. Secondo questa legge, le azioni d’una vita hanno la loro ripercussione nella vita seguente: non soltanto l’uomo rinascerà con gli istinti e le attitudini che ha svolto nella sua incarnazione anteriore, ma il genere stesso della sua esistenza sarà determinato in gran parte dall’uso buono o cattivo che avrà fatto della sua libertà nella vita precedente”.

Ma se i Pitagorici ritengono che ogni Nomade alla fine ascenderà fino a fondersi con Dio, essi però anche ritengono che la Nomade possa subire delle soste e addirittura fare dei passi indietro ( nel suo cammino verso la Divinità ) .

Infatti, come ci riporta Schurè nel suo libro p.336, secondo i Pitagorici , “ d’esistenza in esistenza l’anima può rotolare sino alle tenebre più profonde e perdere la sua umanità” : da uomo può diventare animale e da animale proseguire ancora nella sua caduta per giungere in abissi dalla nostra mente umana inimmaginabili; e solo a poco a poco e con gran fatica la Monade allora potrà cominciare una nuova risalita, una nuova evoluzione. E Schurè commenta: “Ecco il vero inferno, secondo la legge dell’evoluzione : non é desso altrettanto terribile ma più logico di quello delle religiono esoteriche?”

Pitagora come é noto, dava grande importanza alla matematica. Ma, come spiega Schurè, la sua matematica era una “matematica sacra” : “ era, ci dice Schurè, ad un tempo più trascendente e più viva della matematica profana, la sola conosciuta dai nostri scienziati e dai nostri filosofi. Il Numero non vi era considerato come una quantità astratta, ma come la virtù intrinseca e attiva dell’UNO supremo, di Dio, fonte dell’armonia universale. La scienza dei numeri era quella delle forze vive, delle facoltà divine in azione nei mondi e nell’uomo, nel macrocosmo e nel microcosmo. Pitagora non faceva dunque che una teogonia o una teologia razionale” .


Gnosticismo

(…..) Negli stessi giorni in cui si diffondeva il Cristianesimo, esistevano dozzine di sette gnostiche e le loro credenze variavano parecchio. La fondamentale, però, insegnava che il mondo non era stato creato da Dio ma da uno stupido e orgoglioso demone ( o Demiurgo ). Dio infatti era considerato al di sopra della creazione ; e non a caso viene chiamato l’Alieno, l’Abisso, il Non-Esistente. Quest’ultimo epiteto volendo significare che Dio é totalmente al di là di qualsiasi cosa noi intendiamo esprimere col termine “esistenza”. Egli risiede nel reame del Pleuroma – la Plenitudine mistica . Ma esisteva una sorta di fondamentale spaccatura in questa divinità Aliena, sicché avvenne una caduta. Il risultato finale di tale caduta fu il Demiurgo ( o arconte ) che creò altri sei arconti e , poi, insieme ad essi, tutta la creazione e quindi anche l’uomo. Il Demiurgo ignora totalmente la divinità anzi crede di essere egli Dio.

L’uomo, ancorché creato dal Demiurgo, sente come una prigione il mondo, dal Demiurgo creato, e anela a liberarsene. E Dio, il vero Dio, lo ha voluto aiutare in ciò in ciò mandandogli un saggio serpente che gli ha insegnato come egli abbia una possibilità di fuga tramite la conoscenza ( ecco perché il Movimento religioso di cui stiamo parlando si chiama “gnosi” – gnosi in greco significa “conoscenza”), Come si vede, nella narrazione dei gnostici, il serpente ha la stessa funzione che, nel mito classico, ha Prometeo ed é una funzione, va rilevato, che, al contrario da quanto appare dalla lettura del Vecchio Testamento, é positiva

Del resto negli insegnamenti gnostici si osserva un curioso ribaltamento : l’Arconte, é il Dio del Vecchio Testamento, come risulta dal fatto che le scritture gnostiche gli mettono in bocca sentenze, dal Vecchio testamento,tratte, ma é visto in una luce negativa. Mentre Eroi considerati Malvagi dal vecchio testamento sono trasformati dal gnosticismo in eroi.

Il fatto é che gli Gnostici detestavano il Giudaesimo, con i suoi valori limitati e bigotti, ancor più di quanto detestavano le degenerate religioni della Grecia e di Roma.


L’evoluzione degli animali

Estrapoliamo dal libro “Il mistero della vita e della forma”, di C. Jinarajadasa ( edito dalla “Editrice Libraria Sirio “ , nel 1956 ) il seguente passo intitolato :

L’evoluzione degli animali.

Osservando la natura si vede subito che la grande maggioranza degli organismi viventi non si trova nel regno umano, ma nei regni vegetale e animale. Le teorie della scienza moderna insegnano che nell’evoluzione delle delle forme vi é un anello di congiunzione tra il regno vegetale e il regno animale e tra il regno animale e l’uomo; e dato che l’uomo é finora l’essere più alto nella scala dell’evoluzione, é evidente che tutte le forme a lui inferiori devono tendere al suo tipo. Il tipo più alto del regno animale e che più si avvicina all’uomo é lo “anello di congiunzione mancante” e le scimmie antropoidi sono le forme ora esistenti che più si avvicinano a tale “anello di congiunzione”. Dal lato della forma fisica si vede abbastanza chiaramente la transizione dalla scimmia antropoide all’uomo; ma se nel regno animale consideriamo l’intelligenza vi é certamente una grande lacuna nel concetto scientifico dell’evoluzione. Abbiamo certi animali domestici, come i cani, come i gatti,i cavalli, nei quali le caratteristiche umane dell’intelligenza e dell’emozione appaiono chiaramente; più di un cane, nella sua natura interna, é più vicino all’uomo che non la scimmia antropoide. E’ evidente che, dal lato della forma, non vi é transizione possibile dal cane all’uomo; quindi i superiori attributi umani sviluppati nei nostri animali domestici devono inevitabilmente andar sprecati se l’evoluzione procede rigidamente secondo la scala delle forme enunciata dalla scienza.

A fine di meglio comprendere la natura dell’opera, dobbiamo completare il concetto dell’evoluzione della forma nel regno animale con quello dell’evoluzione della vita, e solo quest’ultimo concetto ci permettrà di comprendere appieno la parte che il regno animale ha nei pocessi evolutivi.

Ogni vita, qualunque essa sia, nel minerale, nella pianta, nell’animale, nell’uomo, é fondamentalmente la Vita Una, la quale é un’espressione della natura e dell’attività del LOGOS; ma questa Vita rivela i suoi attributi più o meno perfettamente secondo la maggiore o minore limitazione che subisce nell’evoluzione. La limitazione é al suo massimo nel minerale, ma diminuisce grado a grado nell’animale e nell’uomo. Nell’evoluzione dei suoi attributi la Vita subisce queste limitazioni una dopo l’altra; dopo le limitazioni della materia minerale in cui ha imparato a esprimersi nella costruzione di forme geometriche, mediante la cristallizzazione, diviene la vita del regno vegetale. Conservando tutte le capacità che la Vita imparò nella materia minerale, come pianta aggiunge ora nuove capacità e scopre nuove maniere di rivelarsi. Compiuta sufficiente evoluzione nel regno vegetale. Questa vita, con tutte le esperienze acquistate come minerale e come pianta, costruisce organismi nel regno animale, a fine di rivelare ancor meglio i suoi attributi nascosti mediante le forme più complesse e più plastiche degli animali. Quando l’evoluzione nel regno animale é terminata, il successivo stadio di aito-rivalazione é nel regno umano.

Atrraverso tutti questi grandi stadi, il minerale, il vegetale, l’animale e l’umano, la Vira Una é all’opera, di costruzione, dietruzione e ricostruzione, sforzandosi sempre di costruire forme sempre più alte.

Lungoo tempo prima di cominciare il suo lavoro nella materia minerale, questa Vita Una si differenzia in sette grandi correni, ciascuna delle quali ha la sue speciali ed immutabili caratteristiche (fig. 56 ).

La Unica Fonte di Vita é, nel diagramma, rappresentata nel triangono entro il circolo. Ciascuna delle sette correnti si differenzia in sette modificazioni. Se rappresentiamo le sette grandi correnti coi numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, potremo indicare le modificazioni di ciascuna secondo la seguente tavola:

Apparirà chiaro in tal modo che il primo tipo di vita ha sette varianti, nella prima delle quali la caratteristica speciale del tipo é doppiamente accentuata ( ! . 1 ), ma nelle rimanenti é modificata dalle caratteristiche degli altri sei tipi fondamentali ( 1.,1 . 3 , 1. 4, 1 .5, 1 . 6, 1 . 7,). Questo principio si applica anche agli altri tipi fondamentali, come si può vedere dalla tavola. Questi tipi sono noti sotto il nome di “Raggi” .

Ognuna delle quarantanove varietà della Vita Una segue il proprio sviluppo caratteristico in tutti i grandi regni della natura, minerale, vegetale, animale e umano. Il tipo di vita che nel regno animale appartiene alla varietà 3.2 é passato dal regno minerale al vegetale seguendo la propria corrente speciale ed é stato la varietà 3.2 della vita vegetale; giunto il tempo di passare al regno animale, diventerà la varietà 3.2 di vita animale e rivestirà le forme animali esclusivamente riservate allo sviluppo di questo tipo di vita. Quando questa vita animale passerà allo stadio umano, darà origine ad un individuo del tipo umano 3.2 e non di un altro tipo. Queste varianti della corrente di Vita Una seguono in tutti i regni le loro 49 correnti distinte e non vi é mescolanza di un tipo con l’altro.

Quando le 49 correnti di vita del regno animale son pronte a passare allo stadio umano, ciascuna delle sette varianti di ciascun tipo fondamentale converge le fasi più alte della vita animale in alcune poche forme prestabilite. E’ disposto nel Piano Divino che queste forme vengano a contatto con l’uomo in qualità di animali domestici; sotto l’influenza delle cure umane, la vita animale rivela le sue qualità latenti, le sviluppa e “si individualizza” nel regno umano.

Abbiamo oggi alcuni tipi animai che sono, per così dire, le porte che conducono dal regno animale all’umano; tali sono il cane, il gatto, il cavallo, l’elefante e probabilmente anche la scimmia. In questi può aver luogo la transizione dall’animale all’uomo, purché le volute influenze agiscano sulla vita animale per opera dell’uomo. Benché la vita nei cani e nei gatti sia del più alto tipo dei rispettivi due “Raggi”, pure la transizione ha luogo soltanto quando un cane o gatto sviluppa intelligenza ed affetto per l’azione diretta di un essere umano.

I nostri animali domestici derivano da tipi di vita animale più primitivi e selvaggi, il cane discende dal lupo, il gatto da vari animali felini, quali la pantera, la tigre, ecc. Allo stadio attuale le correnti di vita che si manifestano nei Canidi , convergeranno tutte nei cani domestici allo scopo di entrare nel regno umano; e similmente i tipi di vita manifestantisi nei Felini convergono oggi nel gatto domestico. Nelle età future avremo anche altri tipi di animali domestici che saranno pure tra le forme che costituiscono le sette porte d’entrata all’umanità.

Per comprendere l’evoluzione degli animali é necessario farsi un chiaro concetto di che cosa sia l’anima-gruppo animale. Come dal punto di vista Teosofico l’uomo non é il corpo fisico, ma un’entità spirituale invisibile che possiede un corpo fisico, così é per l’animale. Il vero animale non é il corpo ma una vita invisibile che sta alla forma anomaleanimale e tale vita ha latenti in sé tutti i possibili sviluppi di coscienza di attività animale. L’anima-gruppo animale fu in epoche precedenti l’anima-gruppo vegetale e prima ancora l’anima-gruppo minerale, onde essa é già specializzata dalle sue esperienze nella materia minerale e vegetale. Al pesente stadio non v’èrituale invisibile che possiede un corpo fisico, così é per l’animale. Il vero animale non é il corpo ma una vita invisibile che sta alla forma animale come l’anima umana sta al corpo umano. Questa vita invisibile, che anima le forme animali, é chiamata Anima-Gruppo.

L’anima-gruppo é costituita di una certa determinata quantità di materia mentale animata dalla energia del LOGOS. Questa materia mentale contiene una vita specifica al grado di evoluzione animale e tal vita ha latenti in sé tutti i possibili sviluppi di coscienza e i attività animale. L’anima-gruppo animale fu in epoche precedenti l’anima-gruppo vegetale e prima ancora l’anima-gruppo minerale, onde essa é già altamente specializzata dalle sue esperienze nella materia minerale e vegetale. Al presente stadio di evoluzione non vi é un’unica anima-gruppo animale per tutto il regno animale, come non vi é un unico tipo fisico per tutti gli animali; come nella evoluzione della forma vi sono oggi regni, sotto-regni, gruppi, classi, ordini, generi, specie e famiglie, così simili divisioni esistono nell’anima-gruppo animale.

Il diagramma a fig. 57 potrà dare un’idea del modo in cui un’anima gruppo opera. Supponiamo che sul piano mentale esista l’anima-gruppo di qualche specie di vita animale; quest’anima collettiva si incarnerà ripetutamente sulla terra negli animali che la rappresentano. Le vite di due animali appartenenti a quest’anima gruppo sono affatto distinte sulla terra finché gli animali vivono, ma quando essi muoiono la vita di entrambi ritorna all’anima-gruppo e si mescola con tutte le altre vite che formano parte di quella specie e parimenti vi ritornano.

Osservando il diagramma, se A e B stanno a rappresentare, sul piano fisico due animali appartenenti all’anima-gruppo, la loro progenie é rappresentata da a , b , c , d , e , per l’animale A, e da f , g , per l’animale B. Ora la vita che anima i corpi della nuova generazione viene direttamente dall’anima-gruppo sul piano mentale. Supponiamo che dalla famiglia di A gli animali rappresentati da a , d , e , muoiano giovani per debolezza o siano distrutti dai nemici della loro specie, e che simile sorte tocchi a quello dei figli di B, rappresentato da g . Quando questi animali muoiono, la loro ritorna direttamente all’anima-gruppo e vi porta il contributo delle poche esperienze che ebbe prima della morte, Dal diagramma vediamo che b ha tre discendenti, h, i , l ; c ed f tre , o ,p , q . Anche la vita che anima i corpi di questa seconda generazione proviene direttamente dall’anima collettiva, ma contiene in sé anche le esperienze di quelle generazioni anteriori che perirono prima che la seconda generazione fosse concepita. Alla morte di ciascun animale ritorna così all’anima-gruppo la vita che lo animava e che conserva come memorie innate le varie esperienze acquistate nell’ambiente fisico. La memoria di queste esperienze fisiche si

manifesta negli animali quale istinto; e la coscienza dell’anima-gruppo si modifica lentamente secondo i contributi che i suoi rappresentanti sulla terra le riportano.

E’ evidente che b , c ed f sopravvissero solo perché dotati di maggiore capacità di adattamento all’ambiente in costante mutamento intorno ad essi, e che a ,d , e , g morirono perché deficienti di tale qualità.

I primi sopravvissero perché più forti e meglio capaci di adattarsi ad un ambiente in cui la lotta e la concorrenza predominano, ed essendo i più atti a resistere divengono canali della vita dell’anima-gruppo, e producono dei discendenti dotati di questa qualità di adattamento.

In questo processo di selezione che la natura fa onde sopravvivano solo le forme più idonee, hanno parte importante certe entità dei mondi invisibili, chiamate, nella figura, i “Costruttori”. Queste Intelligenze appartengono ad un regno superiore al regno mano e sono note sotto il nome di Deva o Angeli : una categoria di questi “Esseri Risplendenti” ha il compito di guidare i processi della vita nella natura ; sono i Deva che dirigono la lotta per la vita, e sorvegliano, nei loro protetti, lo sviluppo di quelle caratteristiche che tendono verso le forme ideali della specie; essi risvegliano i “fattori” Mendeliani che sono tanto intimamente connessi con la manifestazione delle caratteristiche latenti della vita che anima la forma. Questi costruttori hanno dinanzi a sé il modello di certi tipi Ideali che dovranno essere sviluppati nella natura onde meglio servire ai fini della Vita; con questi Arhetipi dinanzi, essi dal mondo invisibile sorvegliano e plasmano gli organismi, jn modo da assicurare quella sopravvivenza dei più forti, la quale non é facile a spiegare on le ordinarie teorie dell’evoluzione. Oggigiorno le scienze biologiche non sono in grado di spiegare i “ tre maggiori problemi dell’evoluzione” – l’origine della specie, l’origine dell’adattamento, il telefinalismo ( la perseveranza, attraverso le età, in ben determinati intenti ). Che la “cieca natura” possa operare con una tale finalità con un metodo puramente meccanico di prova e riprova, non é convincente. L’adattamento sarebbe la fine quasi certa, a lungo andare. La concezione dell’anima-gruppo e delle mansioni dei Deva Costruttori, offre una ragionevole spiegazione. Sono i Costruttori che seguono il metodo dei tentativi nelle loro operazioni lungamente protratte attraverso i secoli, ma il tipo finale è a loro presente sin dal principio.

La lotta per l’esistenza é il metodo che i Deva hanno adottato per mettere alla prova gli organismi viventi e per scoprire quali di essi svilupperanno in tal lotta le caratteristiche che sempre più li avvicinino gli archetipi. Bisogna rammentare che alla morte di un qualsiasi organismo, la Vita che lo animava non si dissipa nel nulla, ma ritorna con le sue esperienze alla propria anima-gruppo e da questa emerge di nuovo in seguito per animare un’altra forma. Perciò, quando vediamo che di cento semi forse uno solo trova terreno per germinare, e novantanove vanno perduti, lo spreco é solo apparente poiché la vita dei novantanove incapaci di adattarsi ritorna in un’altra generazione nei discendenti del seme che “ ha germinato”.

Visto questo principio dell’indistruttibilità della Vita, i Costruttori dispongono in modo che nei regni vegetale ed animale vi sia aspra lotta per l’esistenza; e questo metodo, pur producendo la brutale ferocia della natura visibile, é tuttavia dal lato invisibile, un’amichevole cooperazione tra i Costruttori che dirigono lo sviluppo delle forme rivali. Essi hanno l’unico scopo di eseguire la Volontà Divina che ha posto loro innanzi gli Archetipi da conseguirsi nella evoluzione delle forme.


Ars moriendi secondo gli insegnamenti orientali

Estrapoliamo di seguito alcuni passi tratti da: “Il libro tibetano del vivere e del morire” (seconda edizione di Sogyal Rinpoche, pubblicato a cura di Patrick Gaffney e Andrew Harvey, da Ubaldini editore).

La preparazione alla morte – Quando ripenso al Tibet e alle morti di cui fui testimone laggiù, mi colpisce il ricordo della calma e dell’armonia che le circondavano. Questo genere di atmosfera, purtroppo, spesso viene a mancare in Occidente, ma gli ultimi vent’anni di esperienza mi hanno insegnato che con un po’ di immaginazione é possibile ricrearla. Sono convinto che, dove sia possibile, le persone debbano morire a casa, perché é a casa che ci si sente di solito più a proprio agio e in un ambiente familiare é più facile conseguire quella morte serena che i maestri buddhisti sempre raccomandano. Se però una persona é costretta a morire in ospedale , ci sono molte cose che voi, come suoi parenti, potete fare per rendere la morte il più possibile serena, trasformandola i una fonte di ispirazione per tutti. Portatele piante, fiori, fotografie di cose o persone care, disegni fatti dai figli e dai nipoti, un mangianastri e delle cassette di musica e, se si può, cibo preparato in casa. Forse potreste ottenere il permesso di portarle ogni tanto i bambini e, per i parenti, di passare la notte al suo capezzale.

Se il morente é buddhista o se comunque pratica una religione, gli amici potrebbero organizzare nella sua stanza come un piccolo altare, con immagini che lo ispirino. Ricordo un mio allievo, Reiner, che stava morendo in una stanza privata di un ospedale di Monaco. Gli avevano sistemato accanto un altare con le foto dei suoi maestri. Ne fui commosso, e sentii quanto profondamente Reiner fosse sostenuto da quell’atmosfera così ricreata. Gli insegnamenti buddhisti raccomandano di preparare un altare per le offerte quando una persona sta morendo, e vedendo la devozione e la pace mentale di Reiner compresi quanta forza il morente può trarne e come possa ispirarlo a fare della propria morte un momento sacro.

Quando la morte é prossima vi suggerisco di chiedere al personale ospedaliero di disturbare il meno possibile il morente e di sospendere le analisi. Spesso mi chiedono la mia opinione sulla morte nei reparti di terapia intensiva, e sono costretto a rispondere che stare in un reparto di rianimazione rende molto difficile morire in pace e quasi impossibile seguire una pratica spirituale al momento della morte. Il morente non dispone di nessuna intimità quando viene la fine, é collegato ai monitor e quando il respiro si arresta o il cuore cessa di battere scattano i tentativi per rianimarlo. Inoltre non c’é alcuna possibilità di lasciare il corpo indisturbato per un certo tempo dopo la morte, come invece raccomandano i maestri.

Se possibile, cercate di accordarvi con i medici perché vi avvertano quando non vi sono più speranze per il malato e, se questi lo desidera, chiedete che sia trasferito in una stanza privata, scollegando i monitor. Accertatevi che il personale conosca e rispetti i desideri del morente, specie se questi si oppone ai tentativi di rianimazione, e che sappia anche che il corpo va lasciato indisturbato il più a lungo possibile dopo la morte. Ovviamente in un ospedale moderno non si può lasciare il cadavere immobile per tre giorni com’era usanza in Tibet, ma bisognerebbe offrire al defunto tutto quello che può essere preservato in fatto di pace e silenzio, quale aiuto per iniziare il viaggio dopo la morte.

Accertatevi anche che, quando la persona entrerà nelle ultime fasi del morire, siano sospese tutte le iniezioni e ogni sorta di trattamenti invasivi. Possono infatti produrre rabbia, irritazione e dolore, mentre é assolutamente essenziale che, nei momenti che precedono la morte, la mente del morente sia il più possibile calma, come spiegherò meglio in seguito.

La maggior parte delle persone muore in stato di incoscienza. Dalle esperienze di premorte sappiamo che i pazienti in coma o i punto di morte possono essere molto più consapevoli dell’ambiente esterno di quanto solitamente supponiamo. Molti sono coloro che, di ritorno da un’esperienza di premorte, riferiscono di essere usciti dal corpo, stato che ha reso possibile una descrizione sorprendentemente accurata dell’ambiente circostante e, jn alcuni casi, addirittura di altre stanze dell’ospedale. Ciò indica quanto sia importante parlare spesso e in toni positivi a una persona in coma o in punto di morte. Occorre prodigare un accompagnamento consapevole, attento, attivo e pieno di amore fino agli ultimi istanti di vita e, come dimostrerò in seguito, anche dopo.

Una delle speranze che nutro per questo libro é che possa convincere i medici di tutto il mondo a considerare con la massima serietà la necessità di permettere al paziente di morire in silenzio e serenità. Desidero fare appello alla buona volontà della professione medica e spero ne tragga ispirazione per rendere la difficilissima transizione della morte quanto più possibile agevole, serena e indolore. Morire in pace é un diritto umano fondamentale, forse ancora più essenziale del diritto di voto o del diritto alla giustizia. Un diritto da cui, come sottolineano tutte le religioni, dipende in larga misura il benessere e il futuro spirituale del morente.

Non c’é carità più grande che aiutare una persona a morire bene.

Le varie fasi del processo del morire:

La prima fase : la dissoluzione esterna : i sensi e gli elementi

La dissoluzione esterna é la dissoluzione dei sensi e degli elementi.. Come la si esperisce esattamente nel momento della morte ?

La prima cosa di cui forse saremo consapevoli é il processo con cui i nostri sensi smetteranno di funzionare. Se le persone al nostro capezzale staranno parlando, verrà il momento in cui udremo le voci ma non distingueremo più le parole. Questo indicherà che la coscienza uditiva avrà smesso di funzionare. Quando, guardando un oggetto che avremo di fronte, ne vedremo i contorni ma non i particolari, significherà che avrà cominciato a indebolirsi la coscienza visiva. Lo stesso accadrà con le facoltà dell’odorato, del gusto e del tatto. L’affievolirsi delle esperienze sensoriali contrassegna la prima fase del processo di dissoluzione. Le quattro fasi seguenti contrassegnano le sequenze in cui si dissolvono gli elementi.

La terra-

Il corpo inizia a perdere vigore. Ci sentiamo svuotati di ogni energia, non riusciamo ad alzarci, a stare eretti o a tenere un oggetto in mano. La testa ha bisogno di un sostegno. Abbiamo la sensazione di cadere, di sprofondare sotto terra, o di essere schiacciati da un peso enorme; alcuni testi tradizionali dicono che é come se una montagna enorme ci pesasse addosso con tutta la sua massa. Ci sentiamo pesanti e qualunque posizione diventa scomoda. Può accadere di chiedere di essere tirati su, che ci mettano un cuscino più alto o ci tolgano le coperte. L’incarnato perde di colore e diventa pallido. Le guance si infossano e sui denti appaiono macchie scure. Aprire e chiudere gli occhi diventa sempre più difficile. A mano a mano che si dissolve l’aggregato della forma diventiamo più deboli e fragili. La mente é agitata e delirante e poi sprofonda nel torpore.

Questi segni indicano che l’elemento terra si sta riassorbendo nell’elemento acqua. Ciò significa che il vento connesso con l’elemento terra perde progressivamente la sua capacità di fornire un supporto alla coscienza, e la qualità dell’elemento acqua prende il sopravvento : la visione di un miraggio scintillante é il “segno segreto” che appare allora nella mente.

L’acqua.

Incominciamo a perdere il controllo dei fluidi corporei. I fluidi possono colare dal naso, dalla bocca e anche dagli occhi, può accadere di diventare incontinenti. Non riusciamo più a muovere la lingua e gli occhi si fanno asciutti. Le labbra sono contratte ed esangui, la bocca e la gola sono impastate e viscose. Il naso si assottiglia e incominciamo ad avere molta sete. Siamo presi da spasimi e tremiti. L’odore della morte inizia ad aleggiare attorno a noi. A mano a mano che l’aggregato delle sensazioni si dissolve, le sensazioni fisiche si affievoliscono oscillando tra dolore e piacere, caldo e freddo. La mente si annebbia, é frustrata, irritabile e nervosa. Alcuni testi dicono che avremo l’impressione di annegare nell’oceano o di essere trascinati via da un fiume immenso.

L’elemento acqua si dissolve nel fuoco, che diventa quindi il supporto dominante della coscienza. Il “segno segreto” sarà allora la visione di una foschia con turbinanti volute di fumo.

Il fuoco-

La bocca e il naso si inaridiscono completamente. A poco a poco si dilegua tutto il calore corporeo, di solito refluendo dai piedi e dalle mani verso il cuore. Dal punto coronale sulla sommità del capo può uscire un vapore caldo. Il respiro che passa dalla bocca e dal naso é freddo. Non riusciamo più a bere né a digerire alcunché. L’aggregato della percezione si dissolve e la mente oscilla tra lucidità e confusione. Non riusciamo a ricordare i nomi dei nostri cari e degli amici, e neppure a riconoscerli. Percepire l’ambiente circostante é sempre più difficile, perché suoni e immagini sono ormai confusi.

Scrive Kalu Rinpoce “L’esperienza interiore del morente é di essere consumato dalle fiamme o di trovarsi nel crepitare d’un incendio; forse avrà addirittura l’impressione che il mondo intero si consumi in un olocausto”.

L’elemnto fuoco si dissolve nell’elemento aria. Esso é infatti sempre meno in grado di fungere da base per la coscienza, mentre diviene sempre più manifesta la capacità dell’elemento aria a svolgere tale funzione. Il “segno segreto” , allora é costituito da scintille di un rosso luminoso che danzano come lucciole sopra le fiamme.

L’aria.

Respirare diventa sempre più difficoltoso. Sembra che l’aria ci sfugga dalla gola. La respirazione si fa rauca e ansimante. L’inspirazione si fa più breve e faticosa, mentre l’espirazione si allunga. Gli occhi si rovesciano all’indietro e siamo totalmente immobili. A mano a mano che l’aggregato dell’intelletto si dissolve, la mente é disorientata e perde coscienza del mondo esterno. Tutto si fa indistinto.

Continuiamo a riportare brani da “Il libro tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rinpoche. L’Autore dopo aver parlato della dissoluzione dei vari elementi del corpo (terra, acqua, aria, fuoco ) al momento della morte, passa a parlare della dissoluzione interna. Da ora in poi le parole sono di Rinpoche.

“ Nel processo della dissoluzione interna, durate il quale si dissolvono le emozioni e gli stati di pensiero grossolani e sottili, incontriamo quattro livelli di coscienza via via più sottili.

A questo punto il processo della morte rispecchia, inversamente, quello del concepimento. All’unione dello spermatozoo e dell’ovulo dei genitori, la nostra coscienza, sospinta dal karma, viene come aspirata fra i due. Durante lo sviluppo fetale, l’essenza paterna, un nucleo descritto come “bianco e pieno di beatitudine”, dimora nel chakra coronale alla sommità del capo, sopra al canale centrale. L’essenza materna, un nucleo “rosso e caldo”, dimora nel chakra che si dice sia situato quattro dita al di sotto dell’ombelico. E’ da queste due essenze che procedono le fasi successive della dissoluzione.

Con la scomparsa del vento che la manteneva al suo posto, la bianca essenza ereditata dal padre scende lungo il canale centrale in direzione del cuore. Il senso esterno é un’esperienza di “biancore”, come un cielo terso, illuminato dalla luce della luna. Il segno interno é che la consapevolezza si fa lucidissima e cessano tutti gli stati di pensiero derivanti dalla rabbia, trentatre in tutto. Questa fase é chiamata “apparenza”.

A questo punto con la scomparsa del vento che la manteneva al suo posto, l’essenza materna comincia a risalire lungo il canale centrale. Il segno esterno é un’esperienza “rosseggiante”, come il sole che sfolgora in un cielo terso. Il segno interno é un’esperienza di grande beatitudine, poiché cessano tutti gli stati di pensiero derivanti dal desiderio, quaranta in tutto. Questa fase é chiamata “accrescimento”.

Quando l’essenza rossa e quella bianca si incontrano nel cuore, la coscienza é imprigionata fra le due. Tulku Urgyen Rinpoche, un eminente maestro che viveva in Nepal, diceva: “Questa esperienza é simile all’incontro tra il cielo e la terra”. Il segno esterno é un’esperienza di “oscurità”, come un cielo vuoto immerso nel buio più assoluto. Il segno interno é uno stato mentale libero da pensieri. Cessano i sette stati di pensiero derivati dall’ignoranza e dall’illusione. Questa fase é chiamata“ completo conseguimento”.

Poi, appena torniamo ad essere lievemente coscienti, sorge l’alba della luminosità fondamentale, simile a un cielo intonso, libero da nubi, nebbia o foschia; é chiamato a volte “mente di chiara luce della morte”. Dice in proposito Sua Santità il Dalai Lama: “ Questa esperienza é la mente sottile più profonda. Noi la chiamiamo natura di buddha, la fonte autentica di ogni forma di coscienza. La sua continuità perdura anche nella buddhità”.

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A mano a mano che muoiono la collera, il desiderio e l’ignoranza, diventiamo sempre più puri. Alcuni maestri spiegano che, per un praticante dello Dzogchen, le fasi dell’apparenza, dell’accrescimento e del conseguimento sono segni del graduale manifestarsi del rigpa. A mano a mano che muore tutto ciò che oscura la natura della mente, la chiarezza del rigpa comincia pian piano ad apparire e ad aumentare. L’intero processo diventa un dispiegarsi dello stato di luminosità, collegato al riconoscimento della chiarezza del rigpa da parte del praticante.

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L’alba della luminosità fondamentale, o chiara luce, che sorge nel momento della morte é l’occasione di liberazione per eccellenza. Bisogna però conoscere i termini entro i quali questa possibilità ci é data.

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Anche se tutti noi faremo l’esperienza spontanea della luminosità fondamentale, la maggior parte di noi é del tutto impreparata a una tale enorme immensità, la maggior parte di noi non avrà semplicemente i mezzi per riconoscerla, non avendo sviluppato, in vita, alcuna dimestichezza con essi. Di conseguenza tenderemo a reagire istintivamente sulla scorta delle nostre vecchie paure e abitudini, secondo i vecchi riflessi e i condizionamenti del passato. Quantunque le emozioni negative debbano essersi dissolte perché la luminosità possa manifestarsi, persistono le abitudini acquisite nel corso di tante vite, celate dietro le quinte della mente ordinaria. Sebbene con la morte muoia anche la confusione, paura e ignoranza fanno sì che, invece di aprirci alla luminosità e di abbandonarci ad essa, ci ritraiamo e di nuovo ci aggrappiamo istintivamente, alla nostra percezione dualistica.

E’ questo che ci ostacola e ci impedisce di approfittare veramente dell’occasione di liberazione offertaci da questo momento cruciale.

La durata della luminosità fondamentale.

Spunta l’alba della luminosità fondamentale; nel caso di un praticante, l’esperienza durerà tanto quanto questi é capace di dimorare, senza farsi distrarre, nella natura della mente. Per quasi tutti noi, non durerà più di uno schiocco di dita. Per altri, dicono i maestri, durerà quanto occorre per consumare un pasto. Ma la stragrande maggioranza delle persone non la riconosce affatto e cade in uno stato di incoscienza, che può protrarsi per tre giorni e mezzo. Dopodiché, infine, la coscienza abbandona il corpo.

Da qui deriva l’usanza tibetana di evitare che il corpo sia toccato o disturbato nei primi tre giorni dopo la morte, fatto fondamentale soprattutto quando si tratta di un praticante, che potrebbe essersi fuso con la luminosità fondamentale e dunque dimorare nella natura della mente. Ricordo che in Tibet tutti facevano ben attenzione a mantenere il silenzio e un’atmosfera di pace attorno al corpo, soprattutto se si trattava di un grande maestro o di un grande praticante, per evitare di arrecargli anche il minimo disturbo.

Persino il corpo di una persona comune non viene perlopiù spostato prima che siano trascorsi tre giorni, perché non si può mai sapere se costei ha conseguito o no la realizzazione, né in quale momento la coscienza abbandoni il corpo. Si crede che toccare il corpo in un punto, ad esempio praticando un’iniezione, possa attirare verso quel punto la coscienza, la quale rischierebbe di uscire dall’orifizio più vicino invece che dalla fontanella, andando incontro ad una rinascita sfavorevole .

(….) A rigor di logica, quindi, sarebbe meglio che autopsie e cremazioni avvenissero solo dopo tre giorni.

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La luminosità intrinseca

Quando, nel momento della morte, sorge l’alba della luminosità fondamentale, un praticante esperto mantiene la piena consapevolezza e si fonde con essa conseguendo così la liberazione. Se invece la luminosità fondamentale non viene riconosciuta , si entra nel bardo successivo: il bardo luminoso della dharmata.(……..) Il bardo della dharmata presenta quattro fasi, ciascuna delle quali offre un’opportunità di liberazione. (………………………………………………………………………………………………..)

1) Luminosità : il paesaggio di luce.

Nel bardo della dharmata assumete un corpo di luce. La prima fase corrisponde al momento in cui “lo spazio si dissolve i luminosità”. Improvvisamente diventate consapevoli di un vibrante mondo fluido di suoni, luci e colori. Le forme ordinarie del nostro ambiente abituale si fondono in un onnipervadente paesaggio di luce: é scintillante e radioso, trasparente e multicolore, non delimitato da dimensioni o direzioni, luccicante e in continuo movimento. Il Libro tibetano dei morti lo descrive come un “miraggio in una torrida pianura estiva”. I suoi colori sono la naturale espressione delle qualità elementali e intrinseche della mente: lo spazio é percepito come luce blu, l’acqua come luce bianca, la terra come luce gialla, il fuoco come luce rossa e l’aria come luce verde.

La stabilità delle abbaglianti manifestazioni luminose del bardo della dharmata dipenderà unicamente dalla stabilità raggiunta nella pratica del togal . Solo una reale padronanza del togal vi permetterà di rendere stabile tale esperienza in modo da usarla come strumento di liberazione. Altrimenti il bardo della dharmata vi balenerà davanti come un lampo e non vi accorgerete neppure che si é manifestato. (………………………………………………………………………………)

2. Unione: le deità.

Se non riuscite a riconoscere tutto ciò come manifestazione spontanea del rigpa, i raggi luminosi e i colori semplici iniziano a comporsi tra loro e a fondersi in punti o sfere luminose di varie dimensioni chiamate tiklé . Al loro interno appaiono i “mandala delle deità pacifiche e irate”, come enormi concentrazioni sferiche di luce che sembrano occupare la totalità dello spazio.

Questa é la seconda fase, detta “luminosità che si dissolve nell’unione”, dove la luminosità si manifesta come buddha o deità di varie dimensioni, colori e forme, ciascuno dotato dei propri attributi. Emanano una luce fulgida, abbagliante, accecante; il suono é fragoroso, paragonabile al rombo di migliaia di tuoni; e i fasci di luce sono come raggi laser che attraversano ogni cosa.

Si tratta delle “ quarantadue deità pacifiche e delle cinquantotto deità irate” descritte nel Libro tibetano dei morti , che si manifestano per un certo numero di “giorni” secondo la struttura caratteristica del loro mandala, in gruppi di cinque. Tale visione satura la percezione con tale intensità che, se non la riconoscete per ciò che é, parrà minacciosa e terrificante. Potrete allora essere invasi da una paura indicibile e da un cieco terrore, e perdere coscienza. (…………………………………………………………………..)(

  1. Saggezza.

Se di nuovo non riuscite a “riconoscere” e ad acquisire stabilità, si dispiega la fase successiva, detta “dell’unione che si dissolve nella saggezza”.

Dal vostro cuore sgorga un’altro sottile raggio di luce da cui si dispiega una visione gigantesca i cui particolari restano però vividi e precisi. E’ il dispiegarsi dei diversi aspetti della saggezza che si manifestano insieme, in uno spettacoloso srotolarsi di tappeti di luce e di sfolgoranti, luminosi tiklé sferici. (………………………………………)

Se non conseguite la liberazione in questo stadio dimorando non distratti nella natura della mente, i tappeti luminosi, i tiklé e il rigpa si dissolveranno tutti nella fulgida sfera luminosa simile a un baldacchino di penne di pavone.

4. Spontanea presenza.

Tutto ciò annuncia la fase finale del bardo della dharmata, quella della “saggezza che si dissolve nella spontanea presenza”. Ora, tutta la realtà si presenta in un unico spiegamento straordinario. Prima sorge lo stato della purezza primordiale, simile a un cielo limpido e senza nubi. Poi appaiono le deità pacifiche e irate, seguite dalle terre pure dei buddha, al di sotto delle quali appaiono i sei regni dell’esistenza samsarica. L’immensità di questa visione é del tutto al di là di ogni immaginazione. Tutte le possibilità sono presenti. Dalla saggezza alla liberazione e dalla confusione alla rinascita. A questo punto vi scoprirete dotati del potere della chiaroveggenza e della reminiscenza. Potrete ad esempio conoscere , con assoluta chiaroveggenza e senza che nulla limiti la percezione, le vostre vite passate e future, potrete leggere nella mente altrui e conoscere i sei regni di esistenza. Richiamerete istantaneamente alla memoria tutti gli insegnamenti ricevuti e nella mente vi si risveglieranno persino gli insegnamenti mai ascoltati.

Poi, l’intera visione si riassorbirà nella sua essenza originaria, “come una tenda che si affloscia quando i tiranti vengono tagliati”.

Se avrete la stabilità necessaria per riconoscere che queste manifestazioni sono la “radiosità intrinseca” del rigpa, sarete liberati. Ma senza una certa esperienza nella pratica del togal , non sarete in grado di reggere le visioni “abbaglianti come il sole” delle deità. Invece, a causa delle tendenze abituali sviluppate nelle vite precedenti, il vostro sguardo sarà attratto verso il basso, dai sei regni. Questi verranno da voi riconosciuti, e così vi attireranno di nuovo nella trappola dell’illusione.

Nel Libro tibetano dei morti vengono assegnati periodi di “giorni” alle varie esperienze del bardo della dharmata . Non si tratta però di giorni solari di ventiquattro ore, perché nella sfera della dharmata si é completamente al di là di tutti i limiti, compresi quelli di tempo e spazio: si tratta di giorni “meditativi” e corrispondono al tempo in cui riuscivamo a dimorare, non distratti, nella natura della mente, o in uno stato mentale costante. Se la nostra pratica meditativa non é stabile, questi “giorni” saranno brevissimi e la visione delle deità pacifiche e irate sarà così fugace che forse non ce ne accorgeremo neppure.

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Il bardo del divenire

Per la maggior parte di noi, l’esperienza della morte consisterà semplicemente nell’entrare in uno stato di oblio alla fine del processo del morire. E’ detto talvolta che le tre fasi della dissoluzione interna possono essere rapide come tre schiocchi di dita. L’essenza bianca del padre e quella rossa della madre si incontrano allora nel cuore, producendo l’esperienza del buio assoluto, chiamata “completo conseguimento”. Spunta l’alba della luminosità fondamentale, ma non riusciamo a riconoscerla e sprofondiamo nell’incoscienza.

Come ho detto si tratta del primo mancato riconoscimento, una prima manifestazione di ignoranza chiamata in tibetano ma rigpa, cioé “l’opposto del rigpa”. Questo segna l’inizio, in noi, di un altro ciclo di samsara, dopo la sua momentanea interruzione al momento della morte. Si manifesta quindi il bardo della dharmata , che passa in un baleno senza che lo riconosciamo: é il secondo mancato riconoscimento, una seconda manifestazione dell’ignoranza, ma rigpa.

La prima cosa di cui siamo consapevoli é che “il cielo e la terra sembrano separarsi di nuovo” e ci risvegliamo di colpo nello stato intermedio che sta tra la morte e una nuova rinascita. E’ il bardo del divenire, il sipa bardo , ed é il terzo bardo della morte.

Poiché non siamo riusciti a riconoscere la luminosità fondamentale e neppure il bardo della dharmata, i semi di tutte le nostre tendenze abituali si riattivano e si risvegliano. Il bardo del divenire copre il periodo che intercorre tra il nostro risveglio e la discesa nella matrice della vita successiva.

La parola ripa , tradotta con “divenire”, significa anche “possibilità” ed “esistenza”. Nel sipa bardo, poiché la mente non é più limitata e impedita dal corpo fisico di questo mondo, si aprono infinite “possibilità di divenire”, cioé di rinascere nei vari regni. Questo bardo inoltre comporta un’esistenza “esteriore”, ossia il corpo mentale, e una “interiore”, ossia la mente.

La caratteristica saliente del bardo del divenire é che la mente vi svolge il ruolo predominante, mentre il bardo del dharmata si era dispiegato nel regno del rigpa. Così nel bardo della dharmata possediamo un corpo di luce, mentre nel bardo del divenire abbiamo un corpo mentale.

In questo bardo la mente é dotata di immensa chiarezza e illimitata mobilità, tuttavia la direzione in cui si muove é determinata esclusivamente dalle tendenze abituali del karma passato. Per questo é detto bardo “karmico” del divenire, in quanto, come dice Kalu Ripoce, “ é il risultato interamente automatico o cieco delle nostre azioni passate, o karma, e nulla di quanto avviene qui é una decisione conscia dell’essere che esperisce il bardo. Siamo semplicemente sballottati dalla forza del karma”.

A questo punto, la mente é giunta a una fase ulteriore del suo graduale dispiegarsi: é partita dallo stato di massima purezza ( la luminosità fondamentale ), poi é passata attraverso la manifestazione della propria luce ed energia ( le apparizioni nel bardo della dharmata) e ora, nel bardo del divenire, manifesta una forma mentale ancora più grossolana. Qui ha luogo il processo inverso a quello della dissoluzione: ricompaiono i venti e con essi gli stati di pensiero legati all’ignoranza, al desiderio e alla rabbia. Quindi, poiché abbiamo ancora un fresco ricordo del nostro corpo karmico precedente, assumiamo un “corpo mentale”.

Il corpo mentale.

Il corpo mentale del bardo del divenire ha diverse caratteristiche specifiche. E’ dotato di tutti i sensi; é estremamente leggero, lucido e mobile, e la sua consapevolezza é detta sette volte più chiara che in vita. Possiede inoltre una forma rudimentale di chiaroveggenza che non controlla coscientemente, ma che permette di leggere nella mente altrui.

All’inizio il corpo mentale assumerà una forma simile al corpo dell’esistenza appena conclusa, ma privo di difetti e nel pieno rigoglio della vita. Se anche eravate disabili o infermi, nel bardo del divenire avrete un corpo mentale perfetto.

Un antico insegnamento dzogchen dice che il corpo mentale ha le dimensioni di un bambino di otto-dieci anni.

Essendo mosso dalla forza del pensiero concettuale, detta anche “vento karmico”, il corpo mentale non riesce a rimanere fermo neppure un istante. E’ sempre in movimento. Può andare ovunque voglia mosso dal solo pensiero, senza incontrare ostacoli. Non avendo una base fisica, può attraversare barriere come muri o montagne.

Il corpo mentale può vedere attraverso oggetti tridimensionali, tuttavia, poiché é privo dell’essenza paterna e materna proprie di un corpo fisico, non dispone più della luce del sole e della luna ma solo di un tenue chiarore che illumina lo spazio che ha immediatamente davanti a sé. Vede gli altri esseri del bardo senza essere visto dagli esseri viventi, a meno che non dispongano di una chiaroveggenza sviluppata attraverso una profonda esperienza meditativa. Nel corpo mentale possiamo dunque incontrare e conversare per brevi attimi con molti altri viaggiatori nel mondo del bardo, morti prima di noi.

A causa della presenza dei cinque elementi nella sua costituzione, esso ci sembra solido e sentiamo gli stimoli della fame. Gli insegnamenti sul bardo dicono che il corpo mentale si ciba di odori e trae nutrimento dal fumo delle offerte che vengono bruciate, ma solo se appositamente dedicate a lui.

In questo stato l’attività mentale é velocissima: i pensieri sorgono in rapida successione e possiamo fare più cose alla volta. La mente continua a perpetuare schemi e abitudini consolidati, soprattutto la tendenza ad aderire alle esperienze e a crederle dotate di una realtà assoluta.

Le esperienze del Bardo.

Durante le prime settimane trascorse in questo bardo si ha l’impressione di essere un uomo o una donna, esattamente come nell’esistenza precedente. Non ci rendiamo conto di essere morti. Torniamo a casa per rivedere la famiglia e i nostri cari, cerchiamo di parlare con loro, di toccar loro una spalla, ma non rispondono, anzi non mostrano neppure di avvertire la nostra presenza. Per quanti sforzi facciamo, non riusciamo in alcun modo ad attrarre la loro attenzione. Li osserviamo, impotenti, piangere la nostra morte, mentre siedono attoniti e col cuore spezzato. Invano cerchiamo di usare ciò che ci apparteneva: il nostro posto a tavola non é più apparecchiato e altri decidono cosa fare di quello che era nostro. Ci sentiamo adirati, feriti, frustrati “come un pesce che si contorce sulla sabbia calda”, dice il Libro tibetano dei morti.

Se proviamo molto attaccamento per il nostro corpo, magari tentiamo inutilmente di rientrarvi o ci gironzoliamo attorno. In casi estremi, il corpo mentale può indugiare accanto al corpo fisico o ai beni materiali per settimane o perfino per anni; e possiamo continuare a non accorgerci di essere morti. E’ solo quando scopriamo che non proiettiamo ombra, non veniamo riflessi dallo specchio e non lasciamo orme nel terreno che infine capiamo; e il solo fatto di renderci conto di essere morti può essere un tale colpo da farci perdere conoscenza.

Nel bardo del divenire riviviamo tutte le esperienze della vita appena trascorsa; passiamo in rivista minuscoli particolari da tempo dimenticati, rivisitiamo persino luoghi dove, dicono i maestri, “non abbiamo fatto niente di più che sputare per terra”. Ogni sette giorni siamo costretti a rivivere l’esperienza della morte, con tutta la sua sofferenza. Se siamo morti in pace, si riproduce lo stesso stato di pace, ma se siamo morti nel tormento, é l’esperienza del tormento a ripetersi; e ricordate che tutto ciò avviene con una coscienza sette volte più intensa di quella che abbiamo in vita e che, nel fuggevole periodo del bardo del divenire, ritorna tutto il karma negativo delle esistenze precedenti, in modo sconvolgente e terribilmente concentrato.

Il nostro inquieto e solitario vagare per il mondo del bardo é febbrile come un incubo e, proprio come nei sogni, crediamo di avere un corpo fisico e di esistere realmente. Invece, tutte le esperienze di questo bardo provengono solo dalla mente, create dal ritorno del karma e delle abitudini.

Ricompaiono i venti degli elementi e, come dice Tulku Urgyen Ripoche, “ si odono suoni amplificati prodotti dai quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria. Si ode di continuo il boato di una valanga che precipita senza sosta dietro di noi, il fragore di un grande fiume che scorre impetuosamente, il suono di un’enorme massa di fuoco simile a un vulcano, e il frastuono di una grande tempesta”. Mentre cerchiamo di fuggire in un’oscurità terrificante, é detto che davanti a noi si spalancano tre abissi, uno bianco, uno rosso e uno nero, “profondi e spaventosi”. Sono, spiega il Libro tibetano dei morti, la nostra collera , il nostro desiderio e la nostra ignoranza. Ci assalgono acquazzoni gelati, grandinate di pus e sangue. Ci incalzano grida minacciose e disincarnate, ci inseguono demoni divoratori di carne e belve affamate.

Il vento del karma ci spazza via implacabilmente e non riusciamo ad afferrarci a niente. Dice il Libro tibetano dei morti : “Allora l’enorme tornado del karma, terrificante, insopportabile, turbinando furioso ti sospingerà da dietro”. Divorati dalla paura, sballottati qua e là come come semi di soffione al vento, vaghiamo impotenti nelle tenebre del bardo. Fame e sete ci tormentano, cerchiamo un qualche rifugio. Le percezioni mentali mutano ad ogni istante, proiettandoci “come una catapulta”, dice il Libro tibetano dei morti , in un’alternanza di gioia e dolore. Nella mente si risveglia la nostalgia di un corpo fisico e non poterne trovare uno ci sprofonda ancora più nella sofferenza.

Il paesaggio intero e l’ambiente circostante qui sono modellati dal nostro karma, così come il mondo del bardo può essere popolato dalle immagini da incubo prodotte dalle nostre visioni distorte. Se il nostro comportamento abituale in vita é stato positivo, le percezioni e le esperienze di questo bardo saranno colorate di gioia e beatitudine; se invece la nostra vita é stata malvagia e abbiamo fatto del male agli altri, nel bardo sperimenteremo dolore, afflizione e paura. In Tibet si diceva che pescatori, macellai e cacciatori sarebbero stati assaliti dalle loro vittime di un tempo, in versione mostruosa.

Persone che hanno studiato a fondo le esperienze di premorte e soprattutto la “visione retrospettiva della vita” , che ne costituisce un tratto caratteristico, si sono chieste quali inimmaginabile orrore debbano sperimentare nel bardo un trafficante di droga, un dittatore o un aguzzino nazista. La “visione retrospettiva della vita” sembra suggerire che, dopo la morte, sperimentiamo tutta la sofferenza di cui siamo stati direttamente o indirettamente responsabili.

Durata del bardo del divenire

Il bardo del divenire nel suo insieme dura mediamente quarantanove giorni e come minimo una settimana. Questa durata però può variare, così come alcuni vivono cent’anni e altri muoiono giovani. Alcuni possono persino restare intrappolati nel bardo, diventando spiriti e fantasmi. Dudjom Rinpoce spiegava che, nei primi ventuno giorni, la vita precedente é ancora bene impressa, ed é perciò il periodo più favorevole affinché i vivi diano aiuto al defunto. In seguito, la sua futura esistenza inizia lentamente a prendere forma e diventa l’influsso dominante.

Dobbiamo attendere nel bardo fino a che non si stabilisce una connessione karmica con i futuri genitori. A volte penso al bardo come a una sorta di sala per passeggeri in transito in cui si può rimanere in attesa fino a quarantanove giorni prima di trasferirsi nella vita successiva. Esistono però due casi particolari in cui non c’é attesa nello stato intermedio, perché l’intensità e la potenza del karma sono tali da spedire questi esseri direttamente alla prossima rinascita. Il primo caso riguarda coloro che hanno vissuto una vita estremamente positiva e altruistica, e hanno raggiunto un tale grado di addestramento mentale nella pratica spirituale che la forza della realizzazione li trasporta direttamente a una buona rinascita. Il secondo riguarda coloro che hanno condotto una vita assolutamente negativa e dannosa: immediatamente raggiungono il luogo della prossima rinascita, qualunque esso sia.

Il giudizio.

Alcune descrizioni del bardo parlano di una scena del “giudizio”, una retrospettiva della vita simile al giudizio post mortem presente in alcune culture del mondo. La buona coscienza, un bianco angelo custode, fa da avvocato difensore e ricorda tutti gli atti di bontà, mentre la cattiva coscienza, un demone nero, fa da accusatore. Le azioni buone e cattive vengono contate con sassolini bianchi e neri. Il “Signore della morte”, che presiede il tribunale consulta allora lo specchio del karma ed emette il verdetto.

Ritengo che in questa scena del giudizio ci siano interessanti paralleli con la visione retrospettiva della vita delle esperienze di premorte. In ultima analisi il giudizio intero si svolge nella mente. Noi siamo il giudice e l’imputato. “E’ interessante notare” scrive Raymond Moody, “ che nei casi da me studiati il giudizio non veniva dall’essere di luce – questi sembrava amare e accettare in ogni caso le persone – ma dall’individuo giudicato”.

Una donna che aveva avuto un’esperienza di premorte raccontò a Kenneth Ring: “ Ti viene mostrata la tua vita e tu stesso emetti il verdetto (….) Sei tu che giudichi te stesso. Tutti i peccati ti vengono perdonati, ma tu sei capace di perdonarti per non aver fatto le cose che avresti dovuto fare, per gli eventuali piccoli inganni commessi in vita ? Puoi perdonarti ? Il giudizio é questo” .


Ars moriendi secondo gli insegnamenti orientali

Continuiamo a riportare in questo numero alcuni passi tratti da: “Il libro tibetano del vivere e del morire” (seconda edizione di Sogyal Rinpoche, pubblicato a cura di Patrick Gaffney e Andrew Harvey, da Ubaldini editore).

“ Nel processo della dissoluzione intera, durate il quale si dissolvono le emozioni e gli stati di pensiero grossolani e sottili, incontriamo quattro livelli di coscienza via via più sottili.

A questo punto il processo della morte rispecchia, inversamente, quello del concepimento. All’unione dello spermatozoo e dell’ovulo dei genitori, la nostra coscienza, sospinta dal karma, viene come aspirata fra i due. Durante lo sviluppo fetale, l’essenza paterna, un nucleo descritto come “bianco e pieno di beatitudine”, dimora nel chakra coronale alla sommità del capo, sopra al canale centrale. L’essenza materna, un nucleo “rosso e caldo”, dimora nel chakra che si dice sia situato quattro dita al di sotto dell’ombelico. E’ da queste due essenze che procedono le fasi successive della dissoluzione.

Con la scomparsa del vento che la manteneva al suo posto, la bianca essenza ereditata dal padre scende lungo il canale centrale in direzione del cuore. Il senso esterno é un’esperienza di “biancore”, come un cielo terso, illuminato dalla luce della luna. Il segno interno é che la consapevolezza si fa lucidissima e cessano tutti gli stati di pensiero derivanti dalla rabbia, trentatre in tutto. Questa fase é chiamata “apparenza”.

A questo punto con la scomparsa del vento che la manteneva al suo posto, l’essenza materna comincia a risalire lungo il canale centrale. Il segno esterno é un’esperienza “rosseggiante”, come il sole che sfolgora in un cielo terso. Il segno interno é un’esperienza di grande beatitudine, poiché cessano tutti gli stati di pensiero derivanti dal desiderio, quaranta in tutto. Questa fase é chiamata “accrescimento”.

Quando l’essenza rossa e quella bianca si incontrano nel cuore, la coscienza é imprigionata fra le due. Tulku Urgyen Rinpoche, un eminente maestro che viveva in Nepal, diceva: “Questa esperienza é simile all’incontro tra il cielo e la terra”. Il segno esterno é un’esperienza di “oscurità”, come un cielo vuoto immerso nel buio più assoluto. Il segno interno é uno stato mentale libero da pensieri. Cessano i sette stati di pensiero derivati dall’ignoranza e dall’illusione. Questa fase é chiamata

“ completo conseguimento”.

Poi, appena torniamo ad essere lievemente coscienti, sorge l’alba della luminosità fondamentale, simile a un cielo intonso, libero da nubi, nebbia o foschia; é chiamato a volte “mente di chiara luce della morte”. Dice in proposito Sua Santità il Dalai Lama: “ Questa esperienza é la mente sottile più profonda. Noi la chiamiamo natura di buddha, la fonte autentica di ogni forma di coscienza. La sua continuità perdura anche nella buddhità”.

(…………………………………………………………………………………)

A mano a mano che muoiono la collera, il desiderio e l’ignoranza, diventiamo sempre più puri. Alcuni maestri spiegano che, per un praticante dello Dzogchen, le fasi dell’apparenza, dell’accrescimento e del conseguimento sono segni del graduale

manifestarsi del rigpa. A mano a mano che muore tutto ciò che oscura la natura della mente, la chiarezza del rigpa comincia pian piano ad apparire e ad aumentare. L’intero processo diventa un dispiegarsi dello stato di luminosità, collegato al riconoscimento della chiarezza del rigpa da parte del praticante.

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L’alba della luminosità fondamentale, o chiara luce, che sorge nel momento della morte é l’occasione di liberazione per eccellenza. Bisogna però conoscere i termini entro i quali questa possibilità ci é data.

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Anche se tutti noi faremo l’esperienza spontanea della luminosità fondamentale, la maggior parte di noi é del tutto impreparata a una tale enorme immensità, la maggior parte di noi non avrà semplicemente i mezzi per riconoscerla, non avendo sviluppato, in vita, alcuna dimestichezza con essi. Di conseguenza tenderemo a reagire istintivamente sulla scorta delle nostre vecchie paure e abitudini, secondo i vecchi riflessi e i condizionamenti del passato. Quantunque le emozioni negative debbano essersi dissolte perché la luminosità possa manifestarsi, persistono le abitudini acquisite nel corso di tante vite, celate dietro le quinte della mente ordinaria. Sebbene con la morte muoia anche la confusione, paura e ignoranza fanno sì che, invece di aprirci alla luminosità e di abbandonarci ad essa, ci ritraiamo e di nuovo ci aggrappiamo istintivamente, alla nostra percezione dualistica.

E’ questo che ci ostacola e ci impedisce di approfittare veramente dell’occasione di liberazione offertaci da questo momento cruciale.

La durata della luminosità fondamentale.

Spunta l’alba della luminosità fondamentale; nel caso di un praticante, l’esperienza durerà tanto quanto questi é capace di dimorare, senza farsi distrarre, nella natura della mente. Per quasi tutti noi, non durerà più di uno schiocco di dita. Per altri, dicono i maestri, durerà quanto occorre per consumare un pasto. Ma la stragrande maggioranza delle persone non la riconosce affatto e cade in uno stato di incoscienza, che può protrarsi per tre giorni e mezzo. Dopodiché, infine, la coscienza abbandona il corpo.

Da qui deriva l’usanza tibetana di evitare che il corpo sia toccato o disturbato nei primi tre giorni dopo la morte, fatto fondamentale soprattutto quando si tratta di un praticante, che potrebbe essersi fuso con la luminosità fondamentale e dunque dimorare nella natura della mente. Ricordo che in Tibet tutti facevano ben attenzione a mantenere il silenzio e un’atmosfera di pace attorno al corpo, soprattutto se si trattava di un grande maestro o di un grande praticante, per evitare di arrecargli anche il minimo disturbo.

Persino il corpo di ua persona comune non viene perlopiù spostato prima che siano trascorsi tre giorni, perché non si può mai sapere se costei ha conseguito o no la realizzazione, né in quale momento la coscienza abbandoni il corpo. Si crede che toccare il corpo in un punto, ad esempio praticando un’iniezione, possa attirare verso quel punto la coscienza, la quale rischierebbe di uscire dall’orifizio più vicino invece che dalla fontanella, andando incontro ad una rinascita sfavorevole .

(….) A rigor di logica, quindi, sarebbe meglio che autopsie e cremazioni avvenissero

solo dopo tre giorni.

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La luminosità intrinseca

Quando, nel momento della morte, sorge l’alba della luminosità fondamentale, un praticante esperto mantiene la piena consapevolezza e si fonde con essa conseguendo così la liberazione. Se invece la luminosità fondamentale non viene riconosciuta , si entra nel bardo successivo: il bardo luminoso della dharmata.(……..) Il bardo della dharmata presenta quattro fasi, ciascuna delle quali offre un’opportunità di liberazione. (………………………………………………………………………………………………….)

1) Luminosità : il paesaggio di luce.

Nel bardo della dharmata assumete un corpo di luce. La prima fase corrisponde al momento in cui “lo spazio si dissolve i luminosità”. Improvvisamente diventate consapevoli di un vibrante mondo fluido di suoni, luci e colori. Le forme ordinarie del nostro ambiente abituale si fondono in un onnipervadente paesaggio di luce: é scintillante e radioso, trasparente e multicolore, non delimitato da dimensioni o direzioni, luccicante e in continuo movimento. Il Libro tibetano dei morti lo descrive come un “miraggio in una torrida pianura estiva”. I suoi colori sono la naturale espressione delle qualità elementali e intrinseche della mente: lo spazio é percepito come luce blu, l’acqua come luce bianca, la terra come luce gialla, il fuoco come luce rossa e l’aria come luce verde.

La stabilità delle abbaglianti manifestazioni luminose del bardo della dharmata dipenderà unicamente dalla stabilità raggiunta nella pratica del togal . Solo una reale padronanza del togal vi permetterà di rendere stabile tale esperienza in modo da usarla come strumento di liberazione. Altrimenti il bardo della dharmata vi balenerà davanti come un lampo e non vi accorgerete neppure che si é manifestato. (………………………………………………………………………………)

2. Unione: le deità.

Se non riuscite a riconoscere tutto ciò come manifestazione spontanea del rigpa, i raggi luminosi e i colori semplici iniziano a comporsi tra loro e a fondersi in punti o sfere luminose di varie dimensioni chiamate tiklé . Al loro interno appaiono i “mandala delle deità pacifiche e irate”, come enormi concentrazioni sferiche di luce che sembrano occupare la totalità dello spazio.

Questa é la seconda fase, detta “luminosità che si dissolve nell’unione”, dove la luminosità si manifesta come buddha o deità di varie dimensioni, colori e forme, ciascuno dotato dei propri attributi. Emanano una luce fulgida, abbagliante, accecante; il suono é fragoroso, paragonabile al rombo di migliaia di tuoni; e i fasci di luce sono come raggi laser che attraversano ogni cosa.

Si tratta delle “ quarantadue deità pacifiche e delle cinquantotto deità irate” descritte nel Libro tibetano dei morti , che si manifestano per un certo numero di “giorni” secondo la struttura caratteristica del loro mandala, in gruppi di cinque. Tale visione satura la percezione con tale intensità che, se non la riconoscete per ciò che é, parrà minacciosa e terrificante. Potrete allora essere invasi da una paura indicibile e da un cieco terrore, e perdere coscienza. (…………………………………………………………………..)(

  1. Saggezza.
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Se di nuovo non riuscite a “riconoscere” e ad acquisire stabilità, si dispiega la fase successiva, detta “dell’unione che si dissolve nella saggezza”.

Dal vostro cuore sgorga un’altro sottile raggio di luce da cui si dispiega una visione gigantesca i cui particolari restano però vividi e precisi. E’ il dispiegarsi dei diversi aspetti della saggezza che si manifestano insieme, in uno spettacoloso srotolarsi di tappeti di luce e di sfolgoranti, luminosi tiklé sferici. (………………………………………)

Se non conseguite la liberazione in questo stadio dimorando non distratti nella natura della mente, i tappeti luminosi, i tiklé e il rigpa si dissolveranno tutti nella fulgida sfera luminosa simile a un baldacchino di penne di pavone.

4. Spontanea presenza.

Tutto ciò annuncia la fase finale del bardo della dharmata, quella della “saggezza che si dissolve nella spontanea presenza”. Ora, tutta la realtà si presenta in un unico spiegamento straordinario. Prima sorge lo stato della purezza primordiale, simile a un cielo limpido e senza nubi. Poi appaiono le deità pacifiche e irate, seguite dalle terre pure dei buddha, al di sotto delle quali appaiono i sei regni dell’esistenza samsarica. L’immensità di questa visione é del tutto al di là di ogni immaginazione. Tutte le possibilità sono presenti. Dalla saggezza alla liberazione e dalla confusione alla rinascita. A questo punto vi scoprirete dotati del potere della chiaroveggenza e della reminiscenza. Potrete ad esempio conoscere , con assoluta chiaroveggenza e senza che nulla limiti la percezione, le vostre vite passate e future, potrete leggere nella mente altrui e conoscere i sei regni di esistenza. Richiamerete istantaneamente alla memoria tutti gli insegnamenti ricevuti e nella mente vi si risveglieranno persino gli insegnamenti mai ascoltati.

Poi, l’intera visione si riassorbirà nella sua essenza originaria, “come una tenda che si affloscia quando i tiranti vengono tagliati”.

Se avrete la stabilità necessaria per riconoscere che queste manifestazioni sono la “radiosità intrinseca” del rigpa, sarete liberati. Ma senza una certa esperienza nella pratica del togal , non sarete in grado di reggere le visioni “abbaglianti come il sole” delle deità. Invece, a causa delle tendenze abituali sviluppate nelle vite precedenti, il vostro sguardo sarà attratto verso il basso, dai sei regni. Questi verranno da voi riconosciuti, e così vi attireranno di nuovo nella trappola dell’illusione.

Nel Libro tibetano dei morti vengono assegnati periodi di “giorni” alle varie esperienze del bardo della dharmata . Non si tratta però di giorni solari di ventiquattro ore, perché nella sfera della dharmata si é completamente al di là di tutti i limiti, compresi quelli di tempo e spazio: si tratta di giorni “meditativi” e corrispondono al tempo in cui riuscivamo a dimorare, non distratti, nella natura della mente, o in uno stato mentale costante. Se la nostra pratica meditativa non é stabile, questi “giorni” saranno brevissimi e la visione delle deità pacifiche e irate sarà così fugace che forse non ce ne accorgeremo neppure.

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Il bardo del divenire

Per la maggior parte di noi, l’esperienza della morte consisterà semplicemente nell’entrare in uno stato di oblio alla fine del processo del morire. E’ detto talvolta che

le tre fasi della dissoluzione intera possono essere rapide come tre schiocchi di dita. L’essenza bianca del padre e quella rossa della madre si incontrano allora nel cuore, producendo l’esperienza del buio assoluto, chiamata “completo conseguimento”. Spunta l’alba della luminosità fondamentale, ma non riusciamo a riconoscerla e sprofondiamo nell’incoscienza.

Come ho detto si tratta del primo mancato riconoscimento, una prima manifestazione di ignoranza chiamata in tibetano ma rigpa, cioé “l’opposto del rigpa”. Questo segna l’inizio, in noi, di un altro ciclo di samsara, dopo la sua momentanea interruzione al momento della morte. Si manifesta quindi il bardo della dharmata , che passa in un baleno senza che lo riconosciamo: é il secondo mancato riconoscimento, una seconda manifestazione dell’ignoranza, ma rigpa.

La prima cosa di cui siamo consapevoli é che “il cielo e la terra sembrano separarsi di nuovo” e ci risvegliamo di colpo nello stato intermedio che sta tra la morte e una nuova rinascita. E’ il bardo del divenire, il sipa bardo , ed é il terzo bardo della morte.

Poiché non siamo riusciti a riconoscere la luminosità fondamentale e neppure il bardo della dharmata, i semi di tutte le nostre tendenze abituali si riattivano e si risvegliano. Il bardo del divenire copre il periodo che intercorre tra il nostro risveglio e la discesa nella matrice della vita successiva.

La parola ripa , tradotta con “divenire”, significa anche “possibilità” ed “esistenza”. Nel sipa bardo, poiché la mente non é più limitata e impedita dal corpo fisico di questo mondo, si aprono infinite “possibilità di divenire”, cioé di rinascere nei vari regni. Questo bardo inoltre comporta un’esistenza “esteriore”, ossia il corpo mentale, e una “interiore”, ossia la mente.

La caratteristica saliente del bardo del divenire é che la mente vi svolge il ruolo predominante, mentre il bardo del dharmata si era dispiegato nel regno del rigpa. Così nel bardo della dharmata possediamo un corpo di luce, mentre nel bardo del divenire abbiamo un corpo mentale.

In questo bardo la mente é dotata di immensa chiarezza e illimitata mobilità, tuttavia la direzione in cui si muove é determinata esclusivamente dalle tendenze abituali del karma passato. Per questo é detto bardo “karmico” del divenire, in quanto, come dice Kalu Ripoce, “ é il risultato interamente automatico o cieco delle nostre azioni passate, o karma, e nulla di quanto avviene qui é una decisione conscia dell’essere che esperisce il bardo. Siamo semplicemente sballottati dalla forza del karma”.

A questo punto, la mente é giunta a una fase ulteriore del suo graduale dispiegarsi: é partita dallo stato di massima purezza ( la luminosità fondamentale ), poi é passata attraverso la manifestazione della propria luce ed energia ( le apparizioni nel bardo della dharmata) e ora, nel bardo del divenire, manifesta una forma mentale ancora più grossolana. Qui ha luogo il processo inverso a quello della dissoluzione: ricompaiono i venti e con essi gli stati di pensiero legati all’ignoranza, al desiderio e alla rabbia. Quindi, poiché abbiamo ancora un fresco ricordo del nostro corpo karmico precedente, assumiamo un “corpo mentale”.

Il corpo mentale.

Il corpo mentale del bardo del divenire ha diverse caratteristiche specifiche. E’ dotato di tutti i sensi; é estremamente leggero, lucido e mobile, e la sua consapevolezza é

detta sette volte più chiara che in vita. Possiede inoltre una forma rudimentale di chiaroveggenza che non controlla coscientemente, ma che permette di leggere nella mente altrui.

All’inizio il corpo mentale assumerà una forma simile al corpo dell’esistenza appena conclusa, ma privo di difetti e nel pieno rigoglio della vita. Se anche eravate disabili o infermi, nel bardo del divenire avrete un corpo mentale perfetto.

Un antico insegnamento dzogchen dice che il corpo mentale ha le dimensioni di un bambino di otto-dieci anni.

Essendo mosso dalla forza del pensiero concettuale, detta anche “vento karmico”, il corpo mentale non riesce a rimanere fermo neppure un istante. E’ sempre in movimento. Può andare ovunque voglia mosso dal solo pensiero, senza incontrare ostacoli. Non avendo una base fisica, può attraversare barriere come muri o montagne.

Il corpo mentale può vedere attraverso oggetti tridimensionali, tuttavia, poiché é privo dell’essenza paterna e materna proprie di un corpo fisico, non dispone più della luce del sole e della luna ma solo di un tenue chiarore che illumina lo spazio che ha immediatamente davanti a sé. Vede gli altri esseri del bardo senza essere visto dagli esseri viventi, a meno che non dispongano di una chiaroveggenza sviluppata attraverso una profonda esperienza meditativa. Nel corpo mentale possiamo dunque incontrare e conversare per brevi attimi con molti altri viaggiatori nel mondo del bardo, morti prima di noi.

A causa della presenza dei cinque elementi nella sua costituzione, esso ci sembra solido e sentiamo gli stimoli della fame. Gli insegnamenti sul bardo dicono che il corpo mentale si ciba di odori e trae nutrimento dal fumo delle offerte che vengono bruciate, ma solo se appositamente dedicate a lui.

In questo stato l’attività mentale é velocissima: i pensieri sorgono in rapida successione e possiamo fare più cose alla volta. La mente continua a perpetuare schemi e abitudini consolidati, soprattutto la tendenza ad aderire alle esperienze e a crederle dotate di una realtà assoluta.

Le esperienze del Bardo.

Durante le prime settimane trascorse in questo bardo si ha l’impressione di essere un uomo o una donna, esattamente come nell’esistenza precedente. Non ci rendiamo conto di essere morti. Torniamo a casa per rivedere la famiglia e i nostri cari, cerchiamo di parlare con loro, di toccar loro una spalla, ma non rispondono, anzi non mostrano neppure di avvertire la nostra presenza. Per quanti sforzi facciamo, non riusciamo in alcun modo ad attrarre la loro attenzione. Li osserviamo, impotenti, piangere la nostra morte, mentre siedono attoniti e col cuore spezzato. Invano cerchiamo di usare ciò che ci apparteneva: il nostro posto a tavola non é più apparecchiato e altri decidono cosa fare di quello che era nostro. Ci sentiamo adirati, feriti, frustrati “come un pesce che si contorce sulla sabbia calda”, dice il Libro tibetano dei morti.

Se proviamo molto attaccamento per il nostro corpo, magari tentiamo inutilmente di rientrarvi o ci gironzoliamo attorno. In casi estremi, il corpo mentale può indugiare accanto al corpo fisico o ai beni materiali per settimane o perfino per anni; e

possiamo continuare a non accorgerci di essere morti. E’ solo quando scopriamo che non proiettiamo ombra, non veniamo riflessi dallo specchio e non lasciamo orme nel terreno che infine capiamo; e il solo fatto di renderci conto di essere morti può essere un tale colpo da farci perdere conoscenza.

Nel bardo del divenire riviviamo tutte le esperienze della vita appena trascorsa; passiamo in rivista minuscoli particolari da tempo dimenticati, rivisitiamo persino luoghi dove, dicono i maestri, “non abbiamo fatto niente di più che sputare per terra”. Ogni sette giorni siamo costretti a rivivere l’esperienza della morte, con tutta la sua sofferenza. Se siamo morti in pace, si riproduce lo stesso stato di pace, ma se siamo morti nel tormento, é l’esperienza del tormento a ripetersi; e ricordate che tutto ciò avviene con una coscienza sette volte più intensa di quella che abbiamo in vita e che, nel fuggevole periodo del bardo del divenire, ritorna tutto il karma negativo delle esistenze precedenti, in modo sconvolgente e terribilmente concentrato.

Il nostro inquieto e solitario vagare per il mondo del bardo é febbrile come un incubo e, proprio come nei sogni, crediamo di avere un corpo fisico e di esistere realmente. Invece, tutte le esperienze di questo bardo provengono solo dalla mente, create dal ritorno del karma e delle abitudini.

Ricompaiono i venti degli elementi e, come dice Tulku Urgyen Ripoche, “ si odono suoni amplificati prodotti dai quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria. Si ode di continuo il boato di una valanga che precipita senza sosta dietro di noi, il fragore di un grande fiume che scorre impetuosamente, il suono di un’enorme massa di fuoco simile a un vulcano, e il frastuono di una grande tempesta”. Mentre cerchiamo di fuggire in un’oscurità terrificante, é detto che davanti a noi si spalancano tre abissi, uno bianco, uno rosso e uno nero, “profondi e spaventosi”. Sono, spiega il Libro tibetano dei morti, la nostra collera , il nostro desiderio e la nostra ignoranza. Ci assalgono acquazzoni gelati, grandinate di pus e sangue. Ci incalzano grida minacciose e disincarnate, ci inseguono demoni divoratori di carne e belve affamate.

Il vento del karma ci spazza via implacabilmente e non riusciamo ad afferrarci a niente. Dice il Libro tibetano dei morti : “Allora l’enorme tornado del karma, terrificante, insopportabile, turbinando furioso ti sospingerà da dietro”. Divorati dalla paura, sballottati qua e là come come semi di soffione al vento, vaghiamo impotenti nelle tenebre del bardo. Fame e sete ci tormentano, cerchiamo un qualche rifugio. Le percezioni mentali mutano ad ogni istante, proiettandoci “come una catapulta”, dice il Libro tibetano dei morti , in un’alternanza di gioia e dolore. Nella mente si risveglia la nostalgia di un corpo fisico e non poterne trovare uno ci sprofonda ancora più nella sofferenza.

Il paesaggio intero e l’ambiente circostante qui sono modellati dal nostro karma, così come il mondo del bardo può essere popolato dalle immagini da incubo prodotte dalle nostre visioni distorte. Se il nostro comportamento abituale in vita é stato positivo, le percezioni e le esperienze di questo bardo saranno colorate di gioia e beatitudine; se invece la nostra vita é stata malvagia e abbiamo fatto del male agli altri, nel bardo sperimenteremo dolore, afflizione e paura. In Tibet si diceva che pescatori, macellai e cacciatori sarebbero stati assaliti dalle loro vittime di un tempo, in versione mostruosa.

Persone che hanno studiato a fondo le esperienze di premorte e soprattutto la “visione retrospettiva della vita” , che ne costituisce un tratto caratteristico, si sono chieste quali inimmaginabile orrore debbano sperimentare nel bardo un trafficante di droga, un dittatore o un aguzzino nazista. La “visione retrospettiva della vita” sembra suggerire che, dopo la morte, sperimentiamo tutta la sofferenza di cui siamo stati direttamente o indirettamente responsabili.

Durata del bardo del divenire

Il bardo del divenire nel suo insieme dura mediamente quarantanove giorni e come minimo una settimana. Questa durata però può variare, così come alcuni vivono cent’anni e altri muoiono giovani. Alcuni possono persino restare intrappolati nel bardo, diventando spiriti e fantasmi. Dudjom Rinpoce spiegava che, nei primi ventuno giorni, la vita precedente é ancora bene impressa, ed é perciò il periodo più favorevole affinché i vivi diano aiuto al defunto. In seguito, la sua futura esistenza inizia lentamente a prendere forma e diventa l’influsso dominante.

Dobbiamo attendere nel bardo fino a che non si stabilisce una connessione karmica con i futuri genitori. A volte penso al bardo come a una sorta di sala per passeggeri in transito in cui si può rimanere in attesa fino a quarantanove giorni prima di trasferirsi nella vita successiva. Esistono però due casi particolari in cui non c’é attesa nello stato intermedio, perché l’intensità e la potenza del karma sono tali da spedire questi esseri direttamente alla prossima rinascita. Il primo caso riguarda coloro che hanno vissuto una vita estremamente positiva e altruistica, e hanno raggiunto un tale grado di addestramento mentale nella pratica spirituale che la forza della realizzazione li trasporta direttamente a una buona rinascita. Il secondo riguarda coloro che hanno condotto una vita assolutamente negativa e dannosa: immediatamente raggiungono il luogo della prossima rinascita, qualunque esso sia.

Il giudizio.

Alcune descrizioni del bardo parlano di una scena del “giudizio”, una retrospettiva della vita simile al giudizio post mortem presente in alcune culture del mondo. La buona coscienza, un bianco angelo custode, fa da avvocato difensore e ricorda tutti gli atti di bontà, mentre la cattiva coscienza, un demone nero, fa da accusatore. Le azioni buone e cattive vengono contate con sassolini bianchi e neri.. Il “Signore della morte”, che presiede il tribunale consulta allora lo specchio del karma ed emette il verdetto.

Ritengo che in questa scena del giudizio ci siano interessanti paralleli con la visione retrospettiva della vita delle esperienze di premorte. In ultima analisi il giudizio intero si svolge nella mente. Noi siamo il giudice e l’imputato. “E’ interessante notare” scrive Raymond Moody, “ che nei casi da me studiati il giudizio non veniva dall’essere di luce – questi sembrava amare e accettare in ogni caso le persone – ma dall’individuo giudicato”.

Una donna che aveva avuto un’esperienza di premorte raccontò a Kenneth Ring: “ Ti viene mostrata la tua vita e tu stesso emetti il verdetto (….) Sei tu che giudichi te stesso. Tutti i peccati ti vengono perdonati, ma tu sei capace di perdonarti per non aver fatto le cose che avresti dovuto fare, per gli eventuali piccoli inganni commessi in vita ? Puoi perdonarti ? Il giudizio é questo” .