Principi di Diritto Civile

Interpretazione del contratto

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Dell’interpretazione del contratto

Discente: Che cosa sì intende per interpretazione di un contratto?

Docente: A rigore per interpretazione del contratto dovrebbe intendersi l’attività volta ad accertare sia quale contratto ciascuna delle parti aveva intenzione di stipulare, sia quale contratto apparirebbe come voluto dalle parti, a un terzo di normale intelligenza che interrogasse le parole (o le lettere) da esse usate per esprimere la loro intenzione.

La prima attività serve a stabilire se le parti avevano, per usare le parole del legislatore, una “comune intenzione”, cioé volevano un contratto dello stesso contenuto.

Discente: E la seconda attività a che serve? ’

Docente: Serve a stabilire, in caso di constata divergenza delle intenzioni delle parti, se il contratto, da una di esse voluto, corrisponde a quello che apparirebbe come, da entrambe le parti, voluto a quel terzo di normale intelligenza di cui si é fatta ora parola.

Discente: Ed é importante stabilire ciò?

Docente: Certo che é importante! Infatti se risulta una divergenza nelle volontà delle parti, Tizio ha voluto il contratto A mentre Caio, invece, ha voluto il contratto B, se questo contratto B corrisponde a quello che apparirebbe (come voluto da entrambe le parti) al terzo, questo contratto B viene, per così dire, privilegiato.

Discente: In che senso?

Docente: Nel senso che, se l’errore di Tizio, sulla esistenza di una “comune intenzione contrattuale tra lui e Caio, non era riconoscibile (art. 1428) si darà esecuzione al contratto voluto da Caio.

Discente: E se invece l’errore era riconoscibile?

Docente: Se invece l’errore era riconoscibile (e inoltre “essenziale”) Tizio potrà, sì, chiedere l’annullamento del contratto, ma non potrà chiedere alternativamente che venga eseguito il contratto da lui voluto.

Discente: Ho capito: anche se é vero che, se Tizio é caduto in errore sulla esistenza di una “comune intenzione” contrattuale tra lui e la controparte, anche Caio in identico errore é caduto, viene privilegiata la volontà contrattuale di Caio, perché corrisponde a quella volontà che risulta dalla “lettera” del contratto.

Docente: Sì, il legislatore dà una sorta di premio alla parte che, nelle trattative contrattuali e nella conclusione del contratto, ha dimostrata competenza e diligenza. E perché dia questo premio lo abbiamo visto nella lezione dedicata ai vizi del consenso.

Discente: Ma se Tizio vuole il contratto A e Caio il contratto B e dalla lettera, con cui si sono espresse le due volontà, risulterebbe come voluto il contratto C?

Docente: In tal caso il contratto é annullabile salva la possibilità di un parte di aderire al contratto voluta dall’altra (in applicazione analogica dell’articolo 1432).

Discente: Con ciò tu hai detto cosa dovrebbe intendersi per interpretazione secondo te. Ma cosa deve intendersi per interpretazione secondo il legislatore?

Docente: Il legislatore adotta un concetto più ampio di interpretazione: per lui l’interpretazione é l’attività volta a determinare sic et simpliciter il contenuto da attribuire al contratto. Quindi il legislatore ricomprende nel concetto di interpretazione, non solo l’attività volta a individuare le intenzioni delle parti, ma anche l’attività volta a supplire a tale intenzione qualora risulti “dubbia” o totalmente oscura.

Discente: A questo punto possiamo cominciare a passare in rivista i criteri che il legislatore dà all’interprete per individuare la intenzione delle parti.

Docente: Il primo criterio é dato implicitamente dall’articolo 1362: l’interprete deve partire dal presupposto che la volontà delle parti sia conforme a quella risultante dalla lettera del contratto. Questo naturalmente in mancanza di elementi contrastanti con tale conclusione.

Discente: Perché dici che il legislatore dà solo “implicitamente” tale criterio?

Docente: Perché esplicitamente il legislatore dice solo, nella seconda parte dell’articolo, che l’interprete non deve “limitarsi al senso letterale delle parole”. Ma naturalmente, se l’interprete non deve limitarsi a tenere conto del “senso letterale delle parole”, ciò significa che, del “senso letterale delle parole”, deve tenere conto.

Più precisamente l’articolo 1362, sotto la rubrica “Intenzione dei contraenti” nel suo primo comma recita: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.

Discente: Però, mentre tu dici che l’interprete deve indagare quale é stata la intenzione di ciascuna parte, il legislatore, invece, dice che l’interprete deve indagare la “comune intenzione” delle parti.

Docente: Sì, però la “comune intenzione” delle parti”, ci può essere oppure no, mentre la intenzione, che ciascuna delle parti ha avuto nel concludere il contratto, non può non esserci. In realtà il legislatore, se ben avesse conosciuta l’arte sua, avrebbe dovuto formulare il primo comma dell’articolo 1362 così: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare la intenzione delle parti al fine di verificare se al momento della sua conclusione era comune.” Questo il primo comma, che avrebbe dovuto essere seguito da un secondo comma più o meno così formulato: “Ai fini del primo comma, si deve tenere conto sia del senso letterale delle parole usate dalle parti nella conclusione del contratto sia del loro comportamento” continuando poi come detto nell’attuale secondo comma dell’articolo in questione.

Discente: Ma leggiamolo bene, senza fretta, questo secondo comma.

Docente: D’accordo. Tale secondo comma recita: “Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

E’ quello, offertoci da secondo comma dell’art.1362, un criterio che si basa evidentemente sulla aspettativa che le parti abbiano tenuto, sia al momento della conclusione del contratto sia nella loro condotta anteriore e posteriore a tale momento, un comportamento coerente: se Tizio, prima di firmare il contratto di acquisto con Caio, commerciante in cavalli, si preoccupò di montare il cavallo B senza degnare di uno sguardo il cavallo A, é chiaro che, anche se firmò un contratto in cui appariva venduto il cavallo A, egli voleva comprare il cavallo B.

Discente: Passiamo al terzo elemento che l’interprete deve tenere in conto per individuare la volontà delle parti.

Docente: Questo elemento lo indica o meglio pretende di indicarlo l’articolo 1363, che, sotto la rubrica, “Interpretazione complessiva delle clausole”, recita: “Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”.

La prima parte dell’articolo offre un criterio (“Si deve interpretare la clausola A tenendo conto di quel che dice la clausola B e così via”) che, come già abbiamo visto essere per il criterio offerto dal secondo comma dell’articolo 1362, si basa sull’aspettativa di una coerenza nel comportamento delle parti, più particolarmente di una coerenza nella soluzione delle varie questioni che la materia disciplinata dal contratto presentava.

Discente: Questo per quel che riguarda la prima parte dell’articolo e per quel che riguarda la seconda? A me questa seconda parte francamente sembra ripetitiva della prima: infatti, siccome il “complesso dell’atto” é dato dalla somma delle clausole nell’atto stesso contenute, é chiaro che, quando hai detto che il senso di una clausola va stabilito tenendo conto del senso risultante dalle altre clausole, hai anche detto che il senso di una clausola va stabilito tenendo conto del senso risultante dal complesso dell’atto.

Docente: Ciò é evidente. Per cui, per escludere il difetto di una inammissibile ripetitività nella seconda parte dell’articolo 1363, bisogna interpretare questa come se dicesse che, nel dare, a una questione, una soluzione – soluzione che le parti hanno omessa o hanno data in maniera non chiara – bisogna tenere conto, di un quid, che il legislatore non esplicita, ma che a noi sembra ragionevole ravvisare nello scopo pratico perseguito dalle parti; quid risultante (non già dal “complesso dell’atto” cioé da tutte le clausole – il che sarebbe assurdo, ma) da questa o quella clausola contrattuale o anche da elementi extracontrattuali.

Faccio un esempio: se Tizio vende a Caio delle mucche e risulta (non necessariamente dal contratto, ma anche da prove aliunde ricavate) che il campo di Caio é privo di un pozzo a cui abbeverare le mucche, siccome é chiaro che Caio, comprando le mucche, voleva fare un allevamento di mucche, é anche chiaro che la questione se Tizio deve o no lasciare abbeverare le mucche nel suo pozzo va risulta positivamente per Caio.

Discente: Passiamo al criterio interpretativo offerto dall’articolo 1364, il quale, sotto la rubrica, “Espressioni generali”, recita: “Per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare”.

Docente: Questo articolo enuncia un principio di assoluta ovvietà: é chiaro che chi ha lo scopo di accertare la volontà delle parti (alias, l’interprete) può, sì, utilizzare la “lettera” del contratto, come strumento per realizzare tale scopo, ma una volta che, utilizzando strumenti esegetici diversi, é giunto ad accertare tale volontà, non deve cadere nell’assurdità di concludere che essa… non é come gli appare, ma come risulta dalla “lettera” del contratto.

Discente: Passiamo all’articolo 1365 che, sotto la rubrica “Indicazioni esemplificative”, recita: “Quando in un contratto si é espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali secondo ragione, può estendersi lo stesso patto”

Docente: Direi che l’enunciato dell’articolo 1365, più che ovvio é tautologico: se un caso é portato come esempio dell’applicazione di un patto é ovvio che ciò non esclude ma anzi, per definizione, presuppone che tale patto sia applicabile ad altri casi.

Discente: Passiamo all’articolo 1366 che, sotto la rubrica” Interpretazione di buona fede”, recita: “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede “-

Docente: Siccome le norme, che stiamo esaminando, sono rivolte, sì, anche alle parti, ma soprattutto sono rivolte al giudice (a cui spetta il compito, nel disaccordo delle parti, di dare l’interpretazione del contratto), é evidente che l’articolo in esame non vuol dire che chi interpreta il contratto lo deve interpretare in buona fede: infatti la buona fede del giudice é un “dato scontato” nell’applicazione di qualsiasi norma del codice (civile).

Se così é, l’articolo in esame non può che significare, che il contratto va interpretato partendo dal presupposto che le parti, nelle trattative precontrattuali e al momento di concludere il contratto, si siano comportate secondo buona fede.

Discente: Ma il giudice deve partire da tale presupposto e attribuire a una parte, a Tizio, un comportamento secondo buona fede, anche quando aliunde risulta che é un autentico farabutto?

Docente: Io ritengo di sì. Ritengo infatti che con l’articolo in esame si compia un salto qualitativo: dagli articoli con cui il legislatore si propone di dare all’interprete criteri per accertare la reale volontà contrattuale delle parti, si passa agli articoli con cui il legislatore mira ad attribuire al contratto quel contenuto che egli ritiene più giusto e opportuno – se del caso facendo violenza alla reale volontà delle parti.

Attribuendo a Tizio quel comportamento in buona fede su cui la controparte Caio aveva ragione di confidare, il legislatore vuole premiare il bonus civis a scapito del malus civis; d’altra parte non é forse interesse della società che, i beni costituenti la ricchezza nazionale vadano nei patrimoni dei buoni e non dei malvagi?

Discente: Passiamo all’articolo 1367, che, sotto la rubrica “Conservazione del contratto”, recita: Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. Anche per questo articolo si può dire che, pur in presenza di elementi maggioritari che imporrebbero di ritenere la nullità (o anche, perché no? la annullabilità) di una clausola o di tutto intero il contratto, a quella o a questo si deve attribuire, invece, il senso che la nullità (o annullabilità) porti ad escludere?

Docente: Io direi di no. Certo ha un buon fondamento la presunzione che le parti non abbiano voluto dare a una clausola o al contratto un contenuto, che porterebbe alla loro nullità – questo, se non altro, perché di solito le persone non gettano via il loro tempo per fare qualche cosa (che nel caso sarebbe il contratto o la clausola) che sarà poi gettato nel nulla. E di tale presunzione si deve tenere conto. Però, se pur tenendo conto di tale presunzione e di eventuali altri elementi che depongono per una validità della clausola (o del contratto), altri elementi più consistenti e forti depongono in senso contrario, cioé per la nullità, la calusola (o il contratto) dovranno essere considerati nulli. Solo quando una clausola é ambigua, cioé quando gli elementi, che depongono per un senso (quello che porterebbe a ritenerne la validità), sono controbilanciati, da elementi che deporrebbero in senso contrario (quello che porterebbe a ritenerne la nullità), si deve dare la preferenza ai primi.

A tale soluzione conduce, sia la lettera dell’articolo, che parla di “dubbio” (e parlare di “dubbio” non sarebbe il caso quando la maggior parte degli elementi convince per la nullità), sia il criterio esegetico, che vuole che si possa attribuire al legislatore la volontà di fare eccezione a un principio (nel caso al principio del rispetto della volontà delle parti contraenti) solo quando tale volontà chiaramente risulta.

Discente: Passiamo ora all’articolo 1368, che, sotto la rubrica “Pratiche generali interpretative”, recita: “Le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto é stato concluso.

Nei contratti in cui una delle parti é imprenditore, le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui é la sede dell’impresa”.

Docente: L’articolo si basa su una presunzione (superabile però da elementi contrari!) – presunzione che, però, per quel che riguarda il secondo comma, risente un po’ del favor per l’imprenditore, che ispira spesso il nostro legislatore e che già risulta dal primo comma dell’articolo 1341 (il quale, come é noto, recita “Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto, questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”).

Discente: Il favor di cui tu hai parlato a proposito dell’articolo 1368 mi pare controbilanciato dal disposto dell’articolo 1370, che, sotto la rubrica, “Interpretazione contro l’autore della clausola”, recita: “Le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, s’interpretano nel dubbio, a favore dell’altro”.

Docente: Sì, questa disposizione é sfavorevole all’imprenditore ed evidentemente mira a pungolarlo alla massima chiarezza nella formulazione delle condizioni generali di contratto o nella redazione dei moduli e dei formulari.

Discente: Passiamo all’articolo 1369 che, sotto la rubrica “Espressioni con più sensi”, recita: Le espressioni che possono avere più sensi devono nel dubbio essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.

Docente: L’articolo fa l’ipotesi che l’interprete si trovi, come l’asino di Buridano, di fronte a due possibili contenuti del contratto (o di una clausola), che potrebbero essere egualmente considerati corrispondenti alla volontà delle parti. In tal caso, impone il legislatore, tu, interprete, devi attribuire al contratto (o alla clausola) “il senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.

Discente: E siamo arrivati finalmente all’ultimo articolo disciplinante la interpretazione del contratto: l’articolo 1371, che, sotto la rubrica “Regole finali”, recita: “Qualora, nonostante l’applicazione delle norme contenute in questo capo, il contratto rimanga oscuro, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, se é a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti se é a titolo oneroso”.

Docente: Il legislatore, mentre nell’articolo 1369 faceva l’ipotesi di un interprete, che si trova di fronte a “espressioni” che rimandano a due o più significati (plausibili), nell’articolo in esame fa invece l’ipotesi di un interprete che, poveretto, si trova di fronte a “espressioni” senza nessun significato (o con un significato inaccettabile, anche per elementi extracontrattuali). E allora adotta una soluzione….salomonica.

Incapacità naturale

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L’incapacità naturale

Nel caso di un minore o di un interdetto, inabilitato o beneficiario di una amministrazione di sostegno, per determinare se é invalido, o no, il negozio (posto in essere dal minore, dall’interdetto, dall’inabilitato, dal beneficiario), non occorre verificare se essi erano, al momento di porlo in essere, incapaci di intendere o di volere. Anzi, anche se addirittura fosse provato che il minore Rossi o l’inabilitato Bianchi o addirittura l’interdetto Verdi erano, al momento di firmare quel contratto, in uno stato di super-capacità (Rossi, ancorché sedicenne, sarebbe stato in grado di mettere nel sacco il diavolo, Bianchi, ancorché inabilitato, in quel caso particolare – l’eccezione che conferma la regola! – si dimostrò abilissimo uomo di affari….) ebbene l’invalidità del negozio andrebbe lo stesso dichiarata.

Di contro a questa ipotesi ve ne sono però altre in cui, l’invalidità del negozio, andrà dichiarata solo se é provato, che, chi l’ha posto in essere, era, in quel momento, incapace di intendere o di volere. Il Legislatore disciplina queste ipotesi (definite col termine non proprio felice di “incapacità naturale”) nell’articolo 428.

Questo articolo stabilisce l’annullabilità di un atto (si badi, di un atto qualsiasi, non solo di un contratto) quando sussistono le seguenti condizioni.

Prima condizione: dall’atto risulti un “grave pregiudizio” al suo autore. Tale condizione é stabilita, sia per non gravare il tribunale di troppe laboriose indagini (di quelle laboriose indagini che, invece, si renderebbero necessarie se il pregiudizio da accertare fosse lieve) sia per non colpire con una troppo pesante sanzione (quella sanzione sui generis rappresentata dall’annullamento di un contratto – contratto sulla cui base si sono forse già costruiti programmi e fatte spese) una controparte, che non appare meritevole di una particola severità, dal momento che sapeva, sì, del pregiudizio derivante (all’incapace) dall’atto, ma sapeva anche, che solo, di un lieve pregiudizio, si trattava.

Seconda condizione – Per l’annullabilità occorre la “malafede dell’altro contraente”. Tale “condizione” é prevista dal secondo comma dell’art. 428 e si giustifica con tutta evidenza con la tutela del traffico giuridico. A avrebbe titubanza a stringere un accordo con B, se avesse a temere un suo annullamento anche in caso di un’incapacità di intendere o di volere di B, che da lui non potesse essere avvertita (né per la “qualità del contratto”, né per il pregiudizio che a B il contratto apportava, né per un’altra qualsiasi circostanza).

A nostro parere la malafede non richiede la conoscenza del “pregiudizio”, che dall’atto può derivare alla controparte, ma solo della menomazione delle sue facoltà intellettive o volitive: non compete ad A la valutazione se il contratto, che si accinge a firmare con B, é a questo di pregiudizio o no: solo gli compete il dovere di non firmare un atto, che la controparte B non é in grado di valutare, se le é di pregiudizio o no.

Terza condizione. Per l’annullabilità del negozio occorre (e questa é la condizione fondamentalissima!) che il suo autore, al momento di compierlo, fosse “incapace di intendere o di volere” (“qualsiasi” fosse la “causa” di tale sua incapacità!).

E qui si pone il grosso problema: di quale gravità, di quale grado deve essere l’incapacità per consentire l’annullabilità dell’atto?

Sembra logico ritenere che, se una persona ha una tale incapacità da essere interdetta, l’atto da lei compiuto debba essere annullato (purché tale incapacità fosse conosciuta dalla controparte). E in tal senso dispone chiaramente il quarto comma dell’articolo 427.

Noi però riteniamo che si abbia annullabilità del contratto, non solo in tale ipotesi, ma anche quando l’atto sia compiuto a cagione di una disfunzione delle facoltà intellettive o volitive, che abbia ridotta e scemata la normale capacità di intendere o di volere del suo autore (anche se non l’ha ridotta e abbassata fino a un livello, in cui una incapacità di intendere o di volere giustificherebbe l’interdizione): l’alcool ingurgitato da mister Rockefeller ha, sì, scemato visibilmente la sua capacità di intendere o di volere (egli non ha più l’abituale prontezza di memoria e di riflessi, né l’abituale, oculata, riservatezza….) ma non l’ha rimbecillito (anche con l’alcool nel sangue il suo cervello capisce l’affare trattato meglio di un cowboy del Texas e anche dell’uomo medio americano)? Fa niente, il contratto da lui sottoscritto é lo stesso annullabile: la male fede di chi ha profittato della sua menomazione per fargli concludere un affare, che, nel pieno delle sue facoltà, mai avrebbe concluso, va (appunto con l’annullamento del contratto) sanzionata.

Rettificazione – Convalida del contratto

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Docente: Leggi l’art.1442.

Discente: L’art. 1442, sotto la rubrica “Mantenimento del contratto rettificato”, recita:

La parte in errore non può domandare l’annullamento se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere”.

Quindi se le parti sono d’accordo, il contratto voluto dalla parte caduta in errore, viene convalidato.

Docente: No. Dicendo questo tu commetti due errori.

Il primo, é che l’articolo 1432 non fa per nulla l’ipotesi che le due parti siano d’accordo. Se Caio offre di eseguire il contratto che Tizio, la parte caduta in errore, aveva intenzione di concludere, e questa ha un ripensamento e dice di non voler più il contratto che prima voleva, ciò non importa: si esegue lo stesso il contratto che essa prima voleva.

Secondo errore da te commesso: tu hai parlato di “convalida” del contratto, ma la situazione a cui si riferisce l’art.1444, che disciplina appunto la convalida del contratto annullabile, é ben diversa da quella prevista dall’articolo 1432 in esame.

Discente: Perché, diversa?

Docente: Perché, a prescindere che la convalida é un negozio che proviene dalla parte caduta in errore, da Tizio e non da Caio, quello che viene confermato con essa, non é il contratto voluto dal convalidante (che avrebbe potuto chiedere l’annullamento), ma il contratto voluto dalla sua controparte, da Caio.

Mi spiego ricorrendo a un esempio prima fatto: Tizio ha comprato per errore il cavallo numero “uno” mentre voleva comprare il cavallo numero “tre”. Ebbene, con la convalida resta confermato il suo acquisto del cavallo “uno” (così come voleva la controparte, che era esposta all’annullamento del contratto, perché, metti, non aveva riconosciuto l’errore di Tizio, ancorché fosse riconoscibile).

Discente: Ma a prescindere da quanto da te ora osservato, la convalida, prevista dall’articolo 1444, e la rettifica, prevista dall’articolo 1432, hanno una disciplina diversa?

Docente: Inevitabilmente, dato che questa (idest, la rettifica) fa sorgere una problematica che quella (idest, la convalida) non fa sorgere.

E con ciò mi riferisco alla problematica relativa alla tutela dei terzi in buona fede.

Infatti, con la convalida Tizio conferma il contenuto del contratto come appare ai terzi: egli dice divoler comprare, non più il cavallo tre, ma il cavallo uno e i terzi che leggono il contratto (come da Tizio e Caio stipulato illo tempore) vi vedono scritto effettivamente che Tizio aveva dichiarato di comprare il cavallo uno

Con la rettifica, invece, si conferma un contenuto del contratto diverso da quello che appare ai terzi: dal contratto come rettificato risulta che Caio vende a Tizio il cavallo tre, mentre nel contratto stipulato illo tempore sta scritto che Caio vende a Tizio il cavallo uno.

Discente: Ma il legislatore dà esplicita soluzione ai problemi di tutela dei terzi, che possono nascere in caso di rettifica?

Docente: No, la soluzione va tratta dall’art. 1445, che indica gli “effetti dell’annullamento nei confronti dei terzi”.